Il titolo originale rendeva merito alla trama più di quello italiano: “Map of
the human heart”.
Più che il contrastato rapporto tra Avik ed Albertine, infatti, la pellicola
cerca di indagare la mappa delle relazioni umane, talvolta complicate dalle
intemperanze del cuore.
Negli
anni trenta un ragazzo Inuit malato di tubercolosi viene condotto da un
ufficiale britannico in un sanatorio di Montreal, dove incontra un'orfana
pellerossa; Avik e Albertine diventano inseparabili, con grande disappunto della
loro insegnante, che invece vorrebbe soffocare lo spirito pellerossa della
ragazza per facilitarle l’ingresso in società.
Avik, che pure ha sangue bianco nelle vene da parte del padre baleniere, non
riesce ad adattarsi alle rigide regole dell’ospedale e quando Albertine viene
trasferita, dopo un rocambolesco tentativo di fuga insieme, sottrae
dall’archivio le lastre dell’amica e le conserva per molti anni ancora.
Ritornato nell’Artico senza riuscire più ad inserirsi nel tessuto sociale del
piccolo villaggio di cacciatori, Avik ritrova dopo qualche anno lo stesso
ufficiale britannico che gli aveva salvato la vita, e pur allettato dall’idea di
seguirlo per intraprendere gli studi di cartografo, rinuncia per prendersi cura
della vecchia nonna malata e cieca.
Avik non salirà sull’aereo dell’inglese e non salirà neanche sull’umiak della
sua gente: ritenuto un pessimo cacciatore, responsabile della scarsità di cibo
che affligge l’intero villaggio, viene lasciato a terra con il suo fagotto ed il
suo kayak; la vecchia nonna, separata a forza dall’amato nipote, si lascia
cadere dall’umiak, ormai lontano dalla costa, per trovare morte certa nelle
gelide acque artiche. Rimasto orami solo sulla banchisa, Avik non si perde
d’animo: imbraccia la pagaia e raggiunge (idealmente?) un mercantile in
navigazione per imbarcarsi in nuove avventure.
Il destino del protagonista è segnato: un uomo senza terra e senza identità.
Ne cercherà disperatamente una raggiungendo prima il Canada, dove sa che
Albertine studia canto e poi l’Inghilterra, dove spera di incontrarla. Viene
però inaspettatamente ostacolato dall’ufficiale inglese, nel frattempo divenuta
marito geloso della bella Albertine.
Ma i due mezzosangue scoprono di amarsi ancora ed un pittoresco appuntamento
sotto la volta dell’Albert Hall sembra segnare l’inizio di una nuova vita
insieme, che invece la guerra troncherà di netto. Avik non riuscirà a sostenere
il peso degli orrori della guerra, della perdita degli amici più cari, della
lontananza dalla donna amata e diverrà schiavo dell’alcool, della solitudine e
forse della follia, emarginato in una terra che non è più la sua terra
d’origine.
Presentato fuori concorso al 45° Festival di Cannes, non ha riscosso critiche
positive: ridondante e squilibrato sul versante narrativo, ha sequenze
suggestive nelle quali emerge il talento visionario del regista, il quale però
non riesce a dare equilibrio all'opera.
Alcune scene rimarranno impresse per la loro dolcezza (i giochi sotto le
lenzuola dei due orfanelli ricoverati in sanatorio), altre per la loro crudeltà
(il bombardamento della città di Dresda), altre ancora per la loro poesia
(l’incontro dei due amanti su un pallone aerostatico ancorato sulla collina di
Uffington, dalla quale si gode un panorama ineguagliabile sul famoso cavallo
bianco stilizzato, un omaggio alla donna che aveva sempre sognato di avere un
giorno un cavallo tutto suo).
Seppur confuso nei sentimenti e nei significati, il film ha avuto il merito di
accendere i riflettori su una realtà troppo a lungo dimenticata, quella di un
popolo sopraffatto dalla modernità: Avik ed Albertine diventano così l’emblema
di una intera generazione di giovani capaci ed intraprendenti schiacciati dal
peso del cambiamento, incapaci di trovare un equilibrio tra tradizione e
innovazione, attratti dall’innovazione ma impreparati a sostenerne l’impatto.
Avik è capace di rendersi utile sin da piccolo, quanto e più degli altri bambini
del villaggio; aiuta il cartografo e curiosa tra i suoi strumenti; rimasto
orfano, sembra non soffrire della sua condizione e si fa forza con le sue doti
di sensibilità e veggenza, tipiche di un futuro sciamano; ma l’allontanamento
precoce dal suo villaggio per sottoporsi alle cure mediche e la successiva
rottura drammatica con il suo gruppo familiare segneranno la sua vita.
Gli Inuit sono solidali, aiutano i più deboli, accudiscono gli anziani e si
occupano degli orfani; ma solo fin tanto che le condizioni di vita lo consentono
e quando il cibo comincia a scarseggiare sono proprio gli orfani e gli anziani
ad essere sacrificati per primi, una dura legge naturale accettata da tutti con
estrema rassegnazione, consapevoli che il sacrificio di alcuni garantirà la
sopravvivenza di molti.
Però gli Inuit non conoscono la guerra, non ne hanno mai combattuta una, hanno
dovuto sempre combattere contro una nemica imbattibile, la natura, e non hanno
mai disperso le loro già esigue energie per combattersi l’un l’altro; anche
quando Avik e Albertine litigano perché scoprono di appartenere a razze diverse
(“Sei indiana? Gli Inuit odiano gli Indiani!" e giù botte!), le schermaglie
terminano in breve e si sciolgono in calde risate...
Eppure Avik si arruola nell’aviazione! Gli Inuit, che pure non sanno fare la
guerra, sono stati da sempre ottimi “puntatori”, hanno sempre avuto un
infallibile senso dell’orientamento, ed è molto plausibile che quei pochi Inuit
giunti nel vecchio continente siano stati utilizzati nell’esercito proprio per
sfruttare quelle loro doti innate... così Avik prende posto sul bombardiere e
pur di sentirsi integrato in una qualunque struttura sociale partecipa alla più
tremenda azione distruttiva della storia moderna, l’attacco aereo su Dresda... e
non saprà mai più riprendersi dallo shock, tremendo anche per noi spettatori.
L’unica sua consolazione rimarranno l’alcool e le visioni, ormai solo tra i
ghiacci del grande nord, solo nonostante la intricata mappa del suo cuore.
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