Inauditi Inuit! è un film documentario italiano realizzato nel 2006 nei
territori del Nunavut Canadese.
Il regista ed il suo assistente partono per il nord del Canada per documentare
un progetto di telemedicina il cui scopo è curare a distanza gli Inuit dei
lontani territori del Nunavut, a ridosso del Polo Nord.
Scoprono però che quel progetto non ha mai funzionato e decidono così di
realizzare un film differente.
Una
strada innevata, una motoslitta, poi una seconda; si susseguono lentamente una
serie di riprese “casalinghe”, volutamente mosse e scoordinate, ed una
altrettanto scoordinata serie di interviste.
L’aurora boreale accompagna i titoli di testa e scopriamo che Venere è anche
detta la stella dei pastori.
Quindici capitoli introdotti ognuno da una veloce schermata in campo nero ci
permettono di seguire le peripezie degli operatori, alla ricerca dapprima del
responsabile del servizio di telemedicina, poi dei possibili pazienti ed infine
di un progetto alternativo per documentare la condizione di vita degli Inuit del
Nunavut.
Sembrano impreparati. Impreparati al freddo, alla lingua, allo stile di vita
degli Inuit.
Ma il loro sguardo smaliziato mette in luce aspetti curiosi della difficile vita
tra i ghiacci.
Ancora nel 2006 le giovani donne Inuit si recano in ospedale nei loro bianchi
vestiti tradizionali con i bambini ben protetti nei larghi cappucci; le stoffe
sono moderne, di tessuto caldo e morbido, sono scomparse le dure pellicce da
lavorare ed ammorbidire, ma la comodità non ha ceduto il passo alla moda.
Nel 2006 i taxi della capitale del Nunavut, Iqaluit, costano sempre 4,50 dollari
canadesi, qualunque sia la destinazione richiesta; gestiti in cooperative, sono
utilizzati sia dai bianchi che dagli Inuit, che “allora non sono poi così
poveri”, commenta la voce dell’operatore fuori campo!
Sempre nel 2006 è possibile assistere all’addestramento delle mute dei cani per
il traino delle slitte; i cani sono sempre tenuti legati, a distanza di
sicurezza gli uni dagli altri, sfamati con grandi riguardi; quando vengono
attaccati, scopriamo con incredulità che la slitta è a motore!
Il documentario raccoglie diverse immagini della vita moderna degli Inuit: la
caccia alla foca attraverso il foro aperto sulla banchisa, l’aglù attraverso il
quale la foca sale per respirare; la raccolta differenziata della plastica e
l’attivazione di un inceneritore locale; la pratica intramontabile della caccia
alla volpe bianca, la cui pelliccia morbida e spumosa attira sempre i turisti
occidentali, cui viene però imposto di denunciarne e certificarne l’acquisto.
Non potevano mancare così gli artisti di Capo Dorset, famosa località Inuit dove
si raccoglie una folta schiera di scultori, pittori e stampatori. Riuniti in
cooperative, abili commercianti e sensibili artigiani, gli artisti Inuit hanno
saputo mantenere viva nel tempo l’antica arte tradizionale dell’incisione della
pietra saponaria. Anche i bambini di 10-12 anni si dilettano a creare piccoli
Inukshuk, gli omini di pietra che segnala la direzione ai viaggiatori.
Sembra di entrare nel vivo del romanzo di James Huston (“Confessioni di un
abitatore di igloo”) e di seguire da vicino le evoluzioni dell’arte e del
commercio Inuit che così sapientemente lo scrittore-amministratore ci ha saputo
riportare per iscritto: le prime forme di baratto con le pelli di orso o di foca
e le successive forme di pagamento con moneta corrente, ancora poco apprezzata
dagli Inuit che non sapevano cosa farne di quei fogli di carta con la faccia di
un uomo stampigliata sopra, spesso truffati da balenieri senza scrupoli che li
ripagavano con foglietti pubblicitari o anche solo con etichette di bottiglie...
In tutto questo, manca la telemedicina. Il responsabile medico del servizio
intervistato all’inizio del documentario, confessa candidamente che i fondi
ricevuti sono stati sufficienti per avviare l’esperimento solo sui territori
dell’Ontario ma non nel lontano Nunavut… del resto, dice un altro intervistato,
chi avrebbe voluto usufruire del servizio, se quando si va in ospedale è per
poter parlare da vicino con un dottore?
Eppure il progetto sembrava promettere grandi cose… un po’ come questo
documentario, che invece si perde lungo un’asse narrativo incerto e confuso!
Se può risultare eccezionalmente interessante seguire l’evoluzione di un
progetto anche attraverso il suo fallimento, in questo caso si capisce subito
che si è persa una qualsiasi idea unitaria che muova l’indagine. Senza una tesi,
il materiale risulta piuttosto discontinuo, non sviluppa delle idee ma
semplicemente mostra tante cose che i due protagonisti si trovano davanti.
Difficile individuare un filo conduttore tra un’intervista a due scalatori, a un
tizio un po’ strano, agli scultori di statuette Inuit, tra una gara canora ed
un’interminabile visita al supermercato.
Presentato al 24° Torino Film Festival, il documentario italiano non ha riscosso
quindi critiche positive ma è stato talora declassato dalla critica più feroce
alla categoria del filmato da vacanza di due amici.
Solo sul finale, gli operatori sembrano ritrovare il bandolo della matassa e
spiegano negli ultimi cinque minuti le ragioni del titolo del film: il regista
che interroga i canadesi sull’esistenza del Nunavut scopre che in Canada,
nonostante il tentativo di un servizio di assistenza telematica, lo stato degli
Inuit è stranamente sconosciuto, nessuno conosce la data di costituzione dello
stato del Nunavut ed i pochi che han sentito parlare dei territori del
Nord-Ovest, parte integrante della federazione canadese, ignorano chi viva su
quelle terre lontane: gli aborigeni?
Rimane l’interesse per gli appassionati di cultura Inuit per quelle immagini in
campo lungo, per quelle riprese lente e monotone, per quella telecamera sempre
appannata quando passa dagli esterni agli spazi chiusi e riscaldati; e a quel
cristallo di ghiaccio che ad un certo punto accompagna le riprese!
Segni del tempo e dello spazio, della vita dura e lontana degli Inuit.
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