Sono due bellissimi film-documentari del 1971
nati dalla co-produzione della British Broadcasting Corporation e
della National Film Board of Canada. La prima parte è stata
realizzata in estate, la seconda in inverno, ed insieme
costituiscono la più vivida rappresentazione della vita degli Inuit
Netsilik della regione dell’artico canadese, ora appartenente al
Nunavut, in quella che veniva un tempo chiamata la Pelly Bay, o
Arviligjuaq, “luogo abitato dalle grandi balene”, e che ora è
tornato ad avere un solo nome inuktitut: Kugaaruk, “piccola onda”.
I due filmati ci sono stati gentilmente forniti dal Museo della
Montagna di Torino e sono stati realizzati dagli stessi autori e
produttori del documentario sulla costruzione del kayak
secondo le tecniche tradizionali groenlandesi che è stato inserito
nella seconda edizione del Cineforum Inuit del 2010. Non sarà
difficile riconoscere scene e personaggi e completare così la
visione d’insieme delle abitudini quotidiane degli Inuit.
La prima parte del documentario, quindi, mostra una famiglia Inuit
che si prepara ad affrontare l’inverno pescando pesce e cacciano
foche, uccelli e caribù durante le lunghe giornate di luce della
corta estate artica. La seconda parte mostra, invece, come una
famiglia Inuit partecipa alla caccia sulla banchisa ghiacciata e
alla cattura con l’arpione di una foca; offre anche uno spaccato
dell’intensa vita comunitaria trascorsa durante il lungo inverno
polare all’interno dell’igloo, la grande casa comune, con giochi,
sfide, racconti orali, canti di tamburo e cerimonie di vario genere.
Insieme, offrono uno spaccato di una cultura ormai scomparsa e
spiegano delle incredibili capacità di adattamento dei Natsilik
all’ambiente circostante.
La prima parte ha vinto un premio all’International Film Festival di
Salerno nel lontano 1977 e la seconda invece al Festival
Internazionale della Montagna della Città di Trento nel 1984.
La scena introduttiva del primo documentario è
molto accattivante: giugno, 25°C, un cacciatore Inuit scivola
carponi sulla banchisa usando delle pelli d’orso per imitare nella
postura e nei versi la foca che sta cacciando e che riesce ad
arpionare prima che si tuffi nel suo buco di areazione. La voce
narrante spiega come le spedizioni inglesi organizzate per cercare
il passaggio a nord-ovest abbiano raggiunto queste latitudini
estreme ed abbiano scoperto un popolo incredibile, che mai prima
aveva conosciuto l’uomo bianco e che anzi ignorava l’esistenza di
altre genti ai di fuori del suo territorio.
Intorno ad una tenda di pelli c’è la moglie Kinguk ed il bambino
Unyabik, lo stesso che giocava con sassi e pesci mentre il padre
Ikimajak costruiva il kayak e che ora osserva tutte le fasi della
divisione delle carni, del grasso e delle pelli della foca appena
catturata. Il padre lavora con il coltello, la madre con l’ulu, il
tradizionale coltello a mezza luna delle donne, ed in pochi minuti
della foca rimane solo la carcassa. Con pochi gesti rituali vengono
preparate lunghe fettucce di pelle e le provviste per l’inverno,
come gli intestini intrecciati e seccati al sole.
Lavori artigianali di alta precisione sono compiuti dall’uomo sugli
attrezzi per la caccia (arpione preparato con il trapano ad arco) e
dalla donna sulle pelli per ricavarne indumenti.
La tecnica della caccia alla foca cambia: l’attesa intorno al foro
di respirazione è lunga, paziente, faticosa e deve essere
completamente silenziosa. Solo 5 ore più tardi il cacciatore sente
qualche rumore nell’acqua ma il lancio dell’arpione non va a buon
fine.
Ad un paio di miglia dalla tenda, una parete rocciosa è piena di
nidi di uccelli ed il cacciatore diventa raccoglitore di uova, anzi
scalatore.
La lunga giornata estiva è sempre luminosa e anche la natura si
risveglia: nascono i cuccioli dei cani, sbocciano i fiori, si pesca,
si costruiscono o riparano le imbarcazioni, si provano in acqua.
Il primo di agosto la famiglia si sposta a piedi per raggiungere il
campo estivo attraverso la tundra fangosa ed infestata di moschini.
La moglie si sistema i capelli secondo la tradizionale acconciatura
con strisce di pelle mentre gli uomini sistemano gli sbarramenti di
pietra per la pesca al salmone e l’acqua è talmente fredda che
possono resistere appena 20 minuti. In attesa dell’arrivo dei
salmoni, vanno sistemati gli arpioni a tre denti e poi è l’intera
famiglia, compresa la donna che ha appena partorito, che si apposta
sulle barriere al centro del fiume: si scopre finalmente a cosa
servivano quelle lunghe fettucce di pelle!
Verso la fine di agosto è poi la volta della raccolta di bacche e ai
primi di settembre la caccia ai caribù che impegna di nuovo l’intero
gruppo: vengono infatti costruiti tanti inukshuk, ominidi pietra,
per confondere gli animali, che miopi e spaventati, scappano verso
l’acqua, dove vengono inseguiti in kayak, catturati e trainati verso
riva. Entro due mesi non ci sarà più luce e tutti si godono la vita
all’aperto.
“You find your way to exist in this place, not from moment to
moment, but for a year, for a life time”.
Il regista ha potuto riprendere questo tradizionale stile di vita
appena dieci anni prima che scomparisse del tutto: a partire dagli
anni Settanta, infatti, anche i Netsilik hanno cominciato a vivere
in case di legno riscaldate e a cucinare sui fornelli...
Il secondo film-documentario si apre con una
scena analoga al primo: la caccia alla foca ma in condizioni
differenti, sulla banchisa ghiacciata punteggiata dei fori di
respirazione delle foche.
Alla fine di ottobre i Netsilik i preparano per il viaggio verso il
mare con la slitta, costruita con pelli di foca, corna di caribù,
strisce di cuoio, torba e ghiaccio: i pattini vengono assemblati,
ghiacciati e montati, le corna, facili da lavorare, sostituiscono il
legno delle traversine, la torba raccolta in estate ghiaccia quasi
istantaneamente a temperature che si aggirano sui 30° sotto zero e
costituisce un’ottima sciolina sotto una strato di acqua ghiacciata
strofinata con una pelle di coniglio.
Si spostano in gruppo, perché in inverno si ricostituisce il nucleo
familiare: quella ripresa è l’ultima migrazione del 1965, fino a
raggiungere un punto favorevole per la caccia a circa 40 miglia al
largo della costa. Per ripararsi dalle rigide temperature notturne,
che scendono anche a 50° sotto zero, tutti costruiscono subito un
igloo, uno per ciascun nucleo familiare. Per la caccia si
allontanano in ordine sparso fino a 4-5 miglia di distanza grazie
alle slitte trainate dai cani, che riescono a sentire l’odore delle
foche attraverso la neve, in prossimità dei fori di respirazione.
Individuato un foro, il cacciatore si apposta ed usa uno strumento
delicato come il pelo di una coda di coniglio per segnalare l’arrivo
della foca, prima o poi costretta a risalire in superficie per
respirare. Il rituale impone di dividere la foca cacciata e di
consumare subito il fegato crudo, di cui pare gli tutti gli Inuit
siano molto ghiotti.
A marzo avanzato, dopo un buon inverno in cui non hanno sofferto la
fame, giunge il tempo di costruire la grande casa comune, un unico
igloo abbastanza grande per accogliere tutte le famiglie: le
finestre sono costituite da blocchi di ghiaccio trasparente, perché
non esiste il vetro, quello che gli Inuit chiamavano, quando lo
scopriranno dagli europei, il ghiaccio che non si scioglie mai. Sul
letto interno, una piattaforma di neve ricoperta di pelli, la
temperatura si aggira intorno allo zero, e non può salire troppo
altrimenti l’igloo si scioglie. La lampada ad olio in steatite o
pietra saponaria è l’unica fonte di calore e di luce.
Quando le condizioni esterne non lo consentono, non si caccia, ma si
lavora in casa, si sistemano gli strumenti, si disegna sulle
finestre, si guardano crescere i bambini. Se la temperatura esterna
è di -40°C ed il vento soffia a 20 km/h, allora la temperatura
percepita e di ben 100° sotto zero!
Ma ci sono molti modi per tenersi caldi...
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