Il
senso di Smilla per la neve, film del 1997 nato da una co-produzione
tedesco-danese-svedese in collaborazione con la Greenland Film
Production, è liberamente ispirato all’omonimo romanzo dello
scrittore danese Peter Høeg. Come spesso accade, il film non rende
merito al libro: lo sintetizza e semplifica oltre misura, lo rende
cinematograficamente attraente ma filologicamente scialbo, lo svuota
di ogni riferimento al mondo groenlandese dei due protagonisti.
Come nel libro, anche nel film la bella e scontrosa Smilla cerca di
scoprire le ragioni della misteriosa morte del suo piccola amico
Esajas, precipitato da un tetto pur avendo il terrore dell’altezza;
come nel libro, anche nel film, la solitudine di Smilla si fonde con
quella del suo vicino di casa, anche lui coinvolto nell’intrigo
internazionale che ha provocato la morte del bambino; come nel
libro, anche nel film, le intuizioni di Smilla l’aiuteranno a
svelare i misteri che avvolgono le spedizioni scientifiche degli
ultimi decenni in Groenlandia.
Ma nel film la trama pur ricca di personaggi forti e complessi
sembra appiattirsi sulla improbabile storia d’amore tra Smilla ed
“il meccanico” e tutti i racconti di Smilla sugli Inuit, sulle sue
abitudini di bambina eschimese, sui suoi giochi sulla neve, sul suo
straordinario senso di orientamento tra i ghiacci sembrano cedere il
passo agli effetti speciali.
Un meteorite colpisce la Groenlandia nel 1859
mentre un Inuit sta pescando; cento anni dopo un bambino di origini
groenlandesi muore cadendo da un tetto a Copenaghen; uno scienziato
molto ambizioso e senza scrupoli scopre nel meteorite l’esistenza di
parassiti preistorici.
Il libro racconta meglio del film come questi eventi siano tra loro
strettamente connessi.
Il film si avvantaggia degli interminabili tramonti danesi e delle
luci crepuscolari del Grande Nord.
La trama di entrambi è ricca di personaggi: la madre di Esajas,
sempre ubriaca ma lucida quando serve, il vicino di casa di Smilla
(un affascinante David Byrne), timido e balbuziente ma con le mani
sempre troppo pulite per essere un meccanico, la vecchia segretaria
tormentata dal rimorso (una stupefacente Vanessa Redgrave) che offre
a Smilla alcune chiavi di accesso al mistero, il vecchio scienziato
(un credibilissimo Richard Arris) che sembra ad un tempo fuggire e
rincorrere Smilla, il poliziotto che indaga sull’incidente e che
vorrebbe credere alle intuizioni di Smilla sull’omicidio ma che non
può fidarsi della sua capacità di leggere la neve, così incredibile
per un occidentale.
Nel libro Smilla è un personaggio
indimenticabile, uno splendido esempio del tipo underground
solitario e scontroso e tutta la storia ruota comprensibilmente
intorno al suo atavico bisogno di affetto, la sua rabbia spiega la
sua misantropia e viceversa.
Le due ore del film non riescono a riassumere le oltre 450 pagine
del libro ed il personaggio di Smilla perde molto del suo mordente e
risulta forse meno affascinante, nonostante la coinvolgente
interpretazione della giovane e bella Julia Ormond (anche se delle
critiche feroci hanno detto che era “l’attrice meno indicata del
pianeta per interpretare quel solitario guerriero androgino di
Smilla”).
Ma la risposta di Smilla alla domanda del meccanico resterà
indimenticabile: “Com’è possibile che una ragazza carina e minuta
come te abbia una voce così rude?” – “Mi dispiace di dare
l’impressione di essere rude solo con la bocca. Mi sforzo quanto
posso di esserlo in tutto!”
Il colore dominante è il bianco, ovunque, in Danimarca come in
Groenlandia, e tinge anche i sentimenti dei protagonisti e le
emozioni di Smilla.
Il libro ci ha incantati, il film solo
incuriositi; le immagini e le emozioni ricreate sullo schermo non
sono state capaci di competere con quelle suscitate dalla lettura.
Inoltre, il libro è pieno di richiami alla cultura Inuit che nel
film sono stati tagliati: Smilla che spiega perché ha un così
spiccato senso dell’orientamento, Smilla che trasmette la sua innata
passione per la matematica, che racconta come giocava da bambina
sulla neve, che elenca i diversi modi di definire la neve a seconda
del suo stato, che ricorda la madre cacciatrice preoccupata di avere
una figlia tanto compassionevole da non riuscire ad uccidere uccelli
e foche…
Smilla che dice di essere idrofobica e di amare il ghiaccio perché
“copre l’acqua e la rende solida, sicura, percorribile, trattabile”.
Smilla che confessa che “leggere la neve è come ascoltare la musica.
Descrivere ciò che si è letto è come spiegare la musica per
iscritto”. Smilla che parla dei suoi kamik, i suoi stivali di pelle
di foca, dei suoi sinik, i sonni contati per sapere quanto durava il
viaggio, del kayak di sua madre e del tricheco che
probabilmente lo ha distrutto quando il suo corpo non è più stato
ritrovato… lei che in kayak non era mai riuscita a salire!
Smilla che rievoca l’origine del suo nome: “l’anno in cui nacque, la
madre andò in Groenlandia occidentale e da lì riporto il nome di
Millaaraq. Poiché ricordava al padre la parola danese mild, dolce, e
poiché lui voleva sottoporre tutto ciò che era groenlandese ad una
trasformazione che lo rendesse europeo e familiare, e poiché dissero
che la neonata gli avesse rivolto un sorriso, in danese smill, i
suoi genitori si accordarono su Smillaaraq, “che per l’usura cui il
tempo sottopone tutti noi fu abbreviato in Smilla”.
Per scoprire ed apprezzare tutto questo non basta vedere il film,
occorre leggere il libro.
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