TATIYAK - letture

Confessioni di un abitatori di igloo
(Confession of an Igloo Qweller)
James Houston - Ed. Piemme 1995

Scheda del 10 marzo 2009 a cura di Tatiana Cappucci

Il bellissimo libro di James Houston, dedicato “agli Inuit e agli altri amici dell’Artico”, è stato tradotto in italiano da Franca Genta Bonelli e pubblicato dalla casa editrice Piemme in una prima edizione del 1998 dal titolo fedele all’originale inglese “Confessioni di un abitatore di igloo”, accompagnato da un lungo sottotitolo esplicativo: “1948-1963: miti e leggende del popolo dei ghiacci quando ancora la civiltà degli eschimesi viveva le sue antiche tradizioni”.
Mi è piaciuto talmente tanto che mi sono affrettata a comperare anche un secondo volume dello stesso autore dal titolo analogo, “Alla scoperta degli Inuit – Vita quotidiana con gli eschimesi”, sempre tradotto in italiano da Franca Genta Bonelli e sempre pubblicato dalla casa editrice Piemme in una seconda edizione del 1999 con un sottotitolo altrettanto lungo: “quindici anni di vita nel Grande Nord, terra di ghiacci incontaminati dove la luna è ancora un Dio e i cani da slitta parlano solo con i bambini”...
Curioso, quante similitudini, ho pensato subito, ma presa dal gusto della lettura già pregustavo il piacere di immergermi in un’altra opera omnia sugli Inuit, e quasi non volevo credere all’evidenza quando ho scoperto che si trattava dello stesso identico libro!!!
Non commettete lo stesso errore, ma non commettere neanche l’errore di non leggerlo!

Bellissimo, l’ho già detto!
Houston ha saputo ascoltare, ricordare e riportare le leggende, le credenze e le storie di uno straordinario popolo all’epoca ancora padrone dell’Artico incontaminato e con un centinaio di episodi apparentemente scollegati ha saputo tratteggiare le abitudini degli Inuit: ogni racconto è ricco di novità e di scoperte; ogni personaggio è carico di fascino e seduzione; ogni viaggio è pieno di avventura e di pericoli. Houston ha vissuto molti anni tra gli Inuit nel tentativo di incrementare le loro attività artistiche ed artigianali, convinto sostenitore che della teoria che l’arte avrebbe garantito loro una vita altrettanto dignitosa della caccia e della pesca.
Houston scopre gli Inuit un poco alla volta, senza alcuna presunzione, consapevole dei limiti dell’uomo bianco, sedotto dal loro spirito pacifico e dalla loro incapacità di recar danno alla natura e soprattutto ammirato dalla loro curiosità per il nuovo ed il diverso.
Houston racconta dello loro impazienza di stringere mani, dei loro ampi sorrisi, del loro modo amichevole di ridere, delle loro rauche voci cantilenanti, della loro visione allegra e fatalistica della vita e della morte, della somiglianza di alcuni cacciatori con “una robusta palla da football americano di cuoio scuro”, della loro abitudine di entrare in casa senza mai bussare alla porta, della loro abilità primitiva nella caccia (“loro sanno esattamente quando è il momento di sparare, noi no!”), della loro maestria nella lavorazione delle pelli per renderle impermeabili, della loro incapacità di operare in un’economia basata sul denaro, della loro cultura della divisione con gli altri “per cui persone che vivono ad un giorno di viaggio si considerano amici intimi e desiderano condividere tutto”, della loro incapacità di giocare a calcio perché non sono competitivi e non sanno riconoscere nell’altro un avversario, della strabiliante ingegnosità che permette loro di costruire denti nuovi ricavandoli dall’avorio di tricheco o di migliorare una gamba di legno con le corna di bue muschiato per non cadere nella neve di primavera o di scolpire nell’osso parti di motore fuoribordo per sostituire un pezzo rotto o di traghettare uova su un fiordo tra i ghiacci scolpendo nel ghiaccio una piccola barca con la prua appuntita (“spero che gli Inuit vorranno studiare ingegneria, architettura, progettazione navale o rilevamento geografico: sono tutte materie che li hanno vivamente interessati e per le quali sembrano avere una predisposizione naturale”).

                   
     Lancia per i pesci                           Ulu                          Lenza da donna

Entra nei particolari: le lunghe code di pelliccia dei parka indossati dalle donne per sedersi comodamente su sassi o neve, la temperatura interna dell’igloo mantenuta sotto il punto di congelamento per evitare nebbia o addirittura pioggia al suo interno, l’alimentazione a base di carne, pesce e uova senza mai poter mangiare né frutta né verdura, l’abitudine di bere caffè leggero e te di foglie bollito fino a farlo diventare nero, le tombe costruite sullo strato di muschio della tundra con pietre pesanti per tenere lontani gli animali ed impedire al corpo di andarsene in giro a terrorizzare persone e cani, il cordone ombelicale dei neonati reciso in modo netto con i denti, il nome dato al bambino solo quando si poteva ragionevolmente credere che sarebbe sopravvissuto, il doppio nome imposto dal governo canadese, le vecchie abitazioni dei cacciatori di balene mezze tende e mezzi igloo con una bassa porta di legno rosso, gli igloo di ghiaccio costruiti durante la caccia ma sostituiti appena possibile dagli igloo di neve più caldi (!) e confortevoli, l’usanza di fermare la slitta prima di raggiungere un accampamento per rimettersi in ordine, liberarsi della neve e del ghiaccio e sostituire gli abiti con quelli puliti in modo da entrare nel campo con una parvenza di buona forma, i cani che non vengono mai legati perché hanno bisogno delle mani che li nutrono, i gas di scarico delle prime motoslitte meno “pesanti” delle emissioni gassose di una muta di cani nutrita con carne di tricheco, le mute legate a ventaglio alle slitte per lasciare i cani liberi di trovare separatamente il percorso migliore tra le crepe del ghiaccio (“quando viaggiate insieme agli Inuit con una slitta trainata da cani è bene lasciare le decisioni interamente a loro perché sanno tutto quanto riguarda ciò che stanno facendo in questo loro strano e duro mondo, e voi no”).
Svela i segreti del mondo Inuit: il gesto intimo di pettinare i capelli delle donne, lo stare seduti con le gambe distese in avanti, le mani morbide e calde perché sempre protette dal freddo con le muffole, l’arte della seduzione femminile che consiste semplicemente nel camminare, l’antica usanza dello scambio delle mogli svolto nella piena consapevolezza di tutte le persone coinvolte (“così non c’è nulla di segreto”), l’amuleto di coltellini d’avorio legati insieme per aiutare a “tagliare il tempo”, la lanterna ad olio accesa per tutto l’inverno perché non si fidano del buio, i canti invernali cantati da una giovane donna direttamente nella gola di un’altra per creare un suono completamente nuovo, il soffitto a volta dell’igloo scintillante di milioni di cristalli di ghiaccio che brillano alla luce della candela, le regole di bon ton che impongono di mangiare la carne cruda senza mai strappare via l’osso per rosicchiarlo coi denti “come noi barbari che viviamo nel sud facciamo talvolta con le cosce di pollo”, la convinzione che gli animali abbiano il potere di ascoltare e di capire gli esseri umani, la credenza che gli orsi possano togliersi la pelliccia come gli uomini fanno con il parka, i fucili considerati strumenti non per la guerra o la difesa ma per procurare il cibo alla famiglia, la buona educazione dei cacciatori che non si vantavano mai delle prede catturate, l’usanza di lasciare una pala da neve sempre in posizione verticale perché altrimenti si nasconderà (sommersa dalla neve!), la credenza che le donne non potessero scolpire, cucire durante il lutto, mischiare carne e pesce, cacciare le foche ma soltanto volpi, uccelli e ghiottoni.

                   

Riporta con sorprendete ironia avventure e disavventure varie: la casa abitata da Robert Flaherty, quell’irlandese che aveva girato la prima pellicola sugli Inuit, “Nanook of the North”, che aveva trascinato lassù sia un pianoforte che una vasca da bagno di lamiera laccata di verde con l’interno smaltato di bianco, e che aveva una scala a pioli trasformata da lui stesso in scalini talmente sconnessi da far sanguinare la testa a tutti gli ospiti, Houston compreso; la stazione commerciale del 1950 costituita solo da un agente e da un missionario, niente suola, niente infermeria, niente polizia, pochi igloo e tende invernali impossibili da distinguere nel bianco della neve; le comunicazioni via radio con gli insediamenti più lontani ed isolati che pur senza trasmettere notizie permettevano di stabilire che tutti fossero vivi; la diffusione delle prime malattie contagiose, la disperata corsa verso la salvezza delle moglie malata di appendicite in un luogo lontano da raggiungere e difficile da lasciare, la nausea provocata ai primi Inuit ricoverati in ospedale dal cibo occidentale che non poteva competere col sapere della carne cruda; la diffidenza degli Inuit verso i segnali stradali adottati nelle grandi città degli uomini bianchi, perché anche con il semaforo rosso non potevano vedere gli occhi degli automobilisti e capire cosa avessero intenzione di fare; il fallimentare tentativo di trasferire in Quebec alcuni Lapponi Sami con le loro renne, che per quanto addomesticate dagli uomini si dispersero nella tundra non appena furono lasciate libere di seguire i caribù; l’esilarante racconto del viaggio nello spazio dello Sputnik che nelle storie Inuit diventa “il giro intorno al mondo di un cane di nome Laika che guida una slitta proiettile”.
Scrive molte parole nella lingua degli Inuit, l’Inuktitut: kitapik – poco, taimak – abbastanza, illawak – molto, kakuktok – bianco, kouaklokasaktok – quasi congelato, anowavingaluk – vento terribile, inua – anima, angakuk – sciamano, kallunat – uomo bianco, kallunait – donna bianca, kenouyutsat – carta moneta con sopra una faccia, kiatok – stivali di pelle di foca, inuksuk – figure di pietra, inuksuksalik – luogo delle figure di pietra, kunukai – il “naso” dell’igloo per la ventilazione, mumungitok – non buono da mangiare, tuktut – caribù, putik - midollo di caribù, tukik – la luna, l’unico dio maschio che può mettere incinta le donne nelle notti di luna piena, agalingwak – il narvalo, il cui unicorno si è formato quando le trecce di una ragazza vennero attorcigliate per scherzo da due gabbiani, Saomik – mancino ed Arnakotak - donna lunga (i nomi con cui i coniugi Houston vennero adottati dalla famiglia Inuit del grande capo Pootoogook).

Soprattutto dedica un intero capitolo al kayak, quello regalatogli da una vedova di un cacciatore, mancino come lui, restaurato dalle donne Inuit ed ora conservato nel McCord Museum di Montreal, le pelli della coperta raschiate e asciugate che si ritirano fino a diventare lisce come la pelle di un tamburo, il bordo del pozzetto realizzato con un robusto pezzo di legno inzuppato nell’acqua ed esposto al vapore per riuscire a piegarlo coi denti e fargli assumere una forma ovale, il tutto tenuto insieme con legacci di pelle di foca in modo tale che durante gli uragani il kayak possa distendersi secondo le onde invece di spezzarsi, l’accortezza di salire a bordo senza la minima quantità di sabbia sugli stivali perché i granelli potrebbero raschiare e bucare la pelle, il “segreto” di pagaiare senza sforzo facendo rotolare la pagaia sopra un pezzo di grasso di foca sul bordo del pozzetto “per far riposare le braccia nei viaggi lunghi”.

Houston dissemina nel suo romanzo capitoli preziosi sulla costruzione dell’igloo (11), sull’utilizzo delle slitte (18), sui miti Inuit (26), sulle figure di pietra costruite forse per occupare il tempo forse per segnare la strada (32), sulle faticose procedure di matrimonio (52), ma anche racconti divertenti sul trasporto di una casa in legno che coinvolge l’intero villaggio oppure diari struggenti sul terribile destino di una famiglia divisa dalla tubercolosi o ancora tanti, tantissimi spunti di riflessione sulla contaminazione, modernizzazione, evoluzione del popolo Inuit.
Le 370 pagine del libro sono piene di racconti appassionati che richiamano scene di film famosi: la piccola slitta trainata da un cucciolo per allenare i bambini al comando (come in “Nanook of the north”), i canti rituali accompagnati dal suono ritmico del tamburo di pelle di foca (come in “Le nozze di Palo”), la tecnica di caccia della molla di osso nascosta nella polpetta di carne ghiacciata (come in “Ombre Bianche”), la sapiente scelta degli amuleti per proteggersi dagli spiriti malvagi (come in “Atanarjuat”), la prodigiosa capacità dei cacciatori di attendere la preda sulla tana senza mai muoversi per ore ed ore (come in “The fast runner”).
Un libro da leggere, studiare, sottolineare, rileggere e conservare: una fonte inesauribile di informazioni sul popolo Inuit, sulle sue storie passate e sulle sue prospettive future.

James Houston è stato un artista ed uno scrittore canadese di origini scozzesi; nato a Toronto nel 1921, dopo la seconda guerra mondiale decide di trascorrere 12 anni tra gli Inuit del Quebec; durante il suo soggiorno a Capo Dorset, dove vive con la moglie Allie e con i due figli John e Sam secondo lo stile locale Inuit, viene nominato dapprima Responsabile degli Affari del Nord e poi primo amministratore della parte occidentale dell’Isola di Baffin, una carica pensate su misura per lui, che così arriva a cumulare nella sua persona diverse cariche: responsabile delle richieste minerarie, degli esplosivi, delle pellicce, della selvaggina, della pesca e dei cani. Spesso deve accompagnare nell’interno per conto del governo i primi esploratori, qualche cacciatore, le prime delegazioni di scienziati ed i primi gruppi di turisti danarosi.
Considerato come colui che per primo ha dato inizio allo sviluppo dell’arte Inuit, è stato Presidente sia dell’American Indian Arts Centre che del Canadian Eskimo Arts Council, oltre che direttore della Associazione per gli Affari degli Indiani d’America. E’ stato insignito del Premio della Fondazione Culturale degli Indiani d’America e degli Inuit, del Premio al Merito degli Inuit Kawati nel 1979 ed è membro dell’Order of Canada.
Nei primi anni 50, in cambio di alcuni ritratti disegnati a matita sui fogli del suo inseparabile album, Houston riceve le prime piccole sculture Inuit da uomini imbarazzati e riconoscenti; prende così contatti con la Build of Craft (l’Associazione Canadese dell’Artigianato fondata sul finire dell’Ottocento), la più antica e rispettata organizzazione senza scopo di lucro di tutto il Canada ed ottiene di aprire una linea di credito con gli scultoti Inuit attraverso la Compagnia della Baia di Hudson, fino al 1939 dedita esclusivamente al commercio di pellami, per poi crea la Eskimo Art Inc. al fine di sdoganare le opere d’arte dal Canada verso Stati Uniti ed Europa.
Con perseveranza, pazienza e preveggenza, Houston comincia a raccogliere sculture Inuit tra i cacciatori che incontra nei suoi spostamenti in aereo, in slitta o in barca; la prima volta offre in cambio un paio di occhialoni militari dalle lenti regolabili progettati per i piloti che dovevano riconoscere i caccia nemici anche contro sole; poi offre i buoni della Compagnia ed infine trasforma il baratto in commercio vero e proprio, nella convinzione che l’arte avrebbe potuto sopperire alle caccia per assicurare la sopravvivenza a quel popolo straordinario.
Organizza mostre itineranti nei villaggi Inuit ed in Canada, concentra la sua attenzione su statuette e disegni, su lavori di cucito e decorazioni, applicazioni di pelle e dipinti a mascheramento, fino ad ideare, progettare e realizzare nel 1957 un laboratorio Inuit di stampe e litografie, modulando gli studi giapponesi e adattando le tecniche alle risorse locali: non legno ma steatite a grana fine e corna di caribù (mai avorio!)
Houston sapeva bene che quelle sculture e quei disegni avevano assorbito l’eredità artistica della millenaria cultura Inuit (Dorset del 2500 a.C. e Thule del 1000 d.C..), quando la necessità di realizzare amuleti sciamanici in avorio, corno, pietra o legno rispondeva al bisogno di rendere propizia la caccia all’orso, figura simbolo dell’arte Inuit insieme alla dea del mare, metà donna e metà foca, scolpita in denti di tricheco o in osso di balena, abbandonate in grandi quantità sulle spiagge quando la scoperta del petrolio aveva ormai soppiantato il commercio dei balenieri; sapeva anche che ogni scultore Inuit cercava in tutti i modi di essere originale, di trasporre nelle sue opere l’atavica abilità di osservare uomini ed animali e di catturare l’essenza dei loro movimenti; gli Inuit sono sempre stati esperti di anatomia e hanno sempre isolato le immagini nello spazio senza creare regole di prospettiva, “sono forse gli spiriti liberi più ingegnosi e industriosi del mondo”.
L’arte Inuit viene ora gelosamente conservata ed esposta nelle collezioni di vari musei del mondo (Art Gallery of Ontario, Art Gallery of Winnipeg, British Museum di Chicago) perché ha mantenuto “l’abilità di parlarci attraverso grandi distanze di linguaggio e di tempo”, sebbene gli Inuit non abbiano mai avuto una parola per indicare l’arte, ma solo un termine vago per la scultura “sinunguak” (letteralmente una piccola cosa fatta da voi) oppure l’incisione “titoraktok” (cioè segni fatti dalla vostra mano).

                                           
   James Houston spedisce una scultura Inuit                Ottawa 1951 James Houston (1921-2005)
 

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