E’ un trattato sugli Inuit polari della
Groenlandia, un saggio completo scritto da un grande studioso che ha
avuto una straordinaria diffusione, anche se di difficile
reperibilità in Italia.
L’autore visse da solo per un anno nel 1950 tra gli Inuit
groenlandesi e pubblicò il volume prima ancora di sostenere la sua
tesi di dottorato in geomorfologia comparata; radiato
provvisoriamente dal Centro Nazionale di Ricerca Scientifica
francese per avere contravvenuto le regole, fu poi riabilitato dopo
l’esame orale per la tesi.
La prefazione dell’autore riporta una nota curiosa, datata 1975, ad
oltre vent’anni dalla prima pubblicazione: “Era prematuro per me,
nel 1954, scrivere questo libro di un popolo, e non lo sapevo. Può
sembrare strano, ma grandi viaggiatori come Humboldt o Jack London,
hanno vissuto per anni coi loro ricordi, senza decidersi a
pubblicarne parte se non molto tardi o mai. Vivere coi propri
ricordi, in senso stretto, al fine di afferrarne l’ordine interno.
La debolezza dei grandi racconti di viaggio e di reportage deriva
senza dubbio da questa fretta di comunicare la vivacità della vita
profonda. E’ questa ricerca del tempo ritrovato che io sottopongo al
lettore”.
La quinta edizione apparsa nel 1989 risulta, a seguito dei continui
lavori di integrazione ed aggiustamento apportati dallo studioso, di
ben 854 pagine (mentre la prima edizione si fermava a sole 328
pagine); il libro ha venduto un milione di copie nelle sole edizioni
francesi e vanta ben 23 traduzioni nelle lingue più diffuse e
conosciute.
Impossibile riassumere il valore dell’opera in
poche pagine.
Ogni appassionato di cultura Inuit dovrebbe annoverare il volume
nella propria biblioteca.
Malaurie riceve l’autorizzazione per la spedizione geografica
francese a Thule quando si trova ancora nel Sahara, dove sta
studiando “le pendenze di smottamento e di erosione delle pietre
desertiche per paragonarle poi con rilevazioni analoghe nei deserti
freddi”, convinto dell’importanza degli studio comparativi di
geomorfologia quantitativa in climi contrastanti.
Un poco disorientato, rientra in Francia, raccoglie velocemente
quanti più fondi possibili, anticipando molto di tasca propria e si
avventura in Groenlandia su un cargo della linea danese che impiega
27 giorni, un viaggio un po’ monotono per chi lo effettua per la
terza volta.
Allo sbarco lo attende una “umanità brugheliana, ma infagottata e
incappucciata, tracagnotta e massiccia” che gli riserva
un’accoglienza da operetta con hurrà e colpi di cannone; non tardano
i primi incontri (una giovane groenlandese orgogliosa di lasciar
trapelare “squarci di biancheria rosa salmone”), le prime differenze
(solo i danesi vivono in case con il parquet), i primi contrasti (i
danesi giocano a carte mentre bevono whisky e gli Inuit bevono solo
impiak, birra locale di orzo importato).
Passa in rassegna molte città della costa sud occidentale, dalla
capitale Godthaab, meno pittoresca di quanto si aspettasse, alla
mitica Thule, una delle più antiche località esquimesi, fino alla
bella Siorapaluk, “la spiaggetta così deliziosa” meta delle sue
ricerche; nota subito che “lo spirito colonialista è sempre pronto
ad afferrarvi” e percepisce le prime avvisaglie di cambiamenti
repentini e di rivendicazioni autonomiste; già nel 1950 il 15% della
popolazione è immigrata dalla Danimarca, i due terzi vive nelle
città della costa e solo il 12% è rimasta nei tradizionali villaggi
di cacciatori: “con poche parole vengono rievocate una vita
patriarcale di borgo, le sue gioie rare e modeste, un lavoro
ripetitivo e monotono ma anche le stagioni, la loro diversità, gli
uccelli migratori di giugno, il tempo dei mirtilli e dei funghi,
l’odore della brughiera e la libertà della tundra, il disgelo, la
caccia in acqua libera ai trichechi e alle balene, il ghiaccio di
settembre, il vento e la lunga notte invernale...”
Le prime descrizioni della caccia alle urie,
degli interni dell’igloo, del pranzo a base di foca e dei
convenevoli per le visite di cortesia, persino dei primi uomini in
kayak (“piccoli, la faccia gialla e piatta, illuminata da un
enigmatico sorriso”) sono fatte con un tono di superiorità che un
po’ sconcerta e un po’ incuriosisce per la semplicità e sincerità
con cui lo studioso si rivolge al lettore: “non uno di questi uomini
vorrebbe mancare dallo spaccio nei giorni di apertura. Per loro è
una festa. Il pisignarfik, pensate un po’!. E’ innanzitutto
un’occasione per riunirsi e all’Eschimese piace spettegolare”... un
po’ quello che facciamo noi occidentali moderni quando ci
accalchiamo nei centri commerciali!
“Lo spaccio europeo ha fatto nascere in lui nuove abitudini. Si è
adattato alle nostre usanze, la sua alimentazione si è modificata...
il suo modo di vita domestico trasformato... e questo con autentica
mentalità da produttore... con un primato delle spese delle spese di
equipaggiamento, cioè degli “investimenti produttivi” su tutte le
altre voci... e con un bilancio medio della famiglia esquimese
superiore a quello di certe società contadine della vecchia Europa”.
Sorpresi?
E da questo momento il tono dello studioso cambia
e si orienta verso l’ammirazione egli impone di intitolare un
paragrafo “Gli esquimese sono i mecenati della loro stessa storia”:
il distretto di Thule, infatti, grazie alla fortunata risorsa della
caccia alla volpe, ha potuto fornire al suo direttore di allora,
l’esploratore Knud Rasmussen, e al suo personale, un reddito annuo
relativamente elevato, ha potuto sopperire ai bisogni dei servizi
sanitari e della navigazione e ha inoltre sopportato gran parte
delle spese necessarie alla realizzazione delle spedizioni
etnologiche ed archeologiche dette di Thule intraprese tra il 1910
ed il 1913 dallo stesso Rasmussen; con quei viaggi e con le
successive pubblicazioni, gli Inuit si sono assicurati per primi il
titolo di mecenati della eschimologia moderna: “Io non so di nessun
altro caso di società arcaica che abbia realizzato, materialmente e
malgrado un reddito proporzionalmente piccolo, un pluriennale
programma di studi sulla sua storia, estese su un ampio fronte di
15.000 km. I 250 esquimesi polari hanno contribuito a gettare le
fondamenta anche della storia artica di nazioni così potenti come
gli Stati Uniti ed il Canada... e la Danimarca è loro debitrice di
essere stata elevata, sul piano scientifico, al rango di grande
nazione artica. Pensando all’avvenire di questo popolo esemplare,
bisognerà non scordarsene”.
Peccato che Malaurie non sia stato invitato ai lavori di Copenaghen
sul clima del 2009!
Il
suo volume è pieno di informazioni dotte raccolte sul campo, un vero
manuale di introduzione ed approfondimento della vita Inuit, ricco
di aneddoti ed episodi reali, oltre che di lunghe ed articolate
narrazioni di importanti spedizioni scientifiche ed esplorazioni
artiche.
“Una società letteralmente costretta alla saggezza dalla durezza
delle condizioni materiali alle quali è sottomessa, tradizioni che
rimangono vitale perché esprimono imperativi immemorabili di
organizzazione dai quali dipende la sopravvivenza, una cosmografia
infinitamente più articolata e gerarchizzata di quanto non sembri a
prima vista, perché è importante, sotto la minaccia diretta e
permanente dell’ambiente, che la funzione di ognuno sia
rigorosamente determinata...”
E ancora un’analisi puntuale ed una sintesi perfetta: “Certamente,
il popolo eschimese da almeno sei secoli non ha più Storia nel senso
stretto del termine, ma dispone di una memoria che mantiene vivo il
ricordo di un passato lontano di supremazia e di orgoglio quale fu
per la sua razza, vicino alla foresta canadese e alaskiana, la lotta
implacabile contro l’Indiano e altrove contro il Vichingo. Infine
porta in sé soprattutto la fierezza di avere vinto e dominato
l’ambiente stesso: l’implacabile deserto di ghiaccio."
Un libro davvero insostituibile, indispensabile nella biblioteca
dell’appassionato studioso di cultura Inuit!
Jean
Malaurie è un professore francese di antropologia ed ecologia artica
all’Ecole des Hautes Etudes, oltre ad essere direttore della
Fondazione francese di studi nordici.
Nel 1950, dopo aver trascorso un anno tra gli Inuit, decise di
dedicare i suoi studi ad un popolo che egli qualifica “esemplare” e
per vent’anni ha ripetuto le sue missioni solitarie dalla
Groenlandia allo stretto di Bering fino alla Siberia orientale.
Parla correntemente la lingua degli Inuit e, consapevole
dell’infinita complessità del genio di un popolo, è convinto che
“solo condividendone la vita e le prove sia possibile avvicinarsi,
per le più diverse strade, alla conoscenza etnologica”.
Oltre al testo che lo ha reso famoso in tutto il mondo, Jean
Malaurie ha prodotto moltissimi studi scientifici di geomorfologia
dinamica, paleoclimatologia, demografia ed etnostoria; dirige la
rivista internazionale “Internord” e ha realizzato varie serie di
film sui popoli artici per la televisione francese, purtroppo mai
distribuiti in Italia, tra cui un documentario dallo stesso titolo
del libro "Les derniers rois de Thulé".
Per saperne di più visita il sito:
www.jean-malaurie.fr
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