TATIYAK - letture

Gli ultimi re di Thule
Con gli Es
chimesi del Polo di fronte al loro destino
(Les derniers rois de Thulè. Avec les esquilamux polaires, face à leur destin)
Jean Malaurie – Ed. Jaka Book 1976 / 1982

Scheda del 24 marzo 2010 a cura di Tatiana Cappucci

E’ un trattato sugli Inuit polari della Groenlandia, un saggio completo scritto da un grande studioso che ha avuto una straordinaria diffusione, anche se di difficile reperibilità in Italia.
L’autore visse da solo per un anno nel 1950 tra gli Inuit groenlandesi e pubblicò il volume prima ancora di sostenere la sua tesi di dottorato in geomorfologia comparata; radiato provvisoriamente dal Centro Nazionale di Ricerca Scientifica francese per avere contravvenuto le regole, fu poi riabilitato dopo l’esame orale per la tesi.
La prefazione dell’autore riporta una nota curiosa, datata 1975, ad oltre vent’anni dalla prima pubblicazione: “Era prematuro per me, nel 1954, scrivere questo libro di un popolo, e non lo sapevo. Può sembrare strano, ma grandi viaggiatori come Humboldt o Jack London, hanno vissuto per anni coi loro ricordi, senza decidersi a pubblicarne parte se non molto tardi o mai. Vivere coi propri ricordi, in senso stretto, al fine di afferrarne l’ordine interno. La debolezza dei grandi racconti di viaggio e di reportage deriva senza dubbio da questa fretta di comunicare la vivacità della vita profonda. E’ questa ricerca del tempo ritrovato che io sottopongo al lettore”.
La quinta edizione apparsa nel 1989 risulta, a seguito dei continui lavori di integrazione ed aggiustamento apportati dallo studioso, di ben 854 pagine (mentre la prima edizione si fermava a sole 328 pagine); il libro ha venduto un milione di copie nelle sole edizioni francesi e vanta ben 23 traduzioni nelle lingue più diffuse e conosciute.

                        

Impossibile riassumere il valore dell’opera in poche pagine.
Ogni appassionato di cultura Inuit dovrebbe annoverare il volume nella propria biblioteca.
Malaurie riceve l’autorizzazione per la spedizione geografica francese a Thule quando si trova ancora nel Sahara, dove sta studiando “le pendenze di smottamento e di erosione delle pietre desertiche per paragonarle poi con rilevazioni analoghe nei deserti freddi”, convinto dell’importanza degli studio comparativi di geomorfologia quantitativa in climi contrastanti.
Un poco disorientato, rientra in Francia, raccoglie velocemente quanti più fondi possibili, anticipando molto di tasca propria e si avventura in Groenlandia su un cargo della linea danese che impiega 27 giorni, un viaggio un po’ monotono per chi lo effettua per la terza volta.
Allo sbarco lo attende una “umanità brugheliana, ma infagottata e incappucciata, tracagnotta e massiccia” che gli riserva un’accoglienza da operetta con hurrà e colpi di cannone; non tardano i primi incontri (una giovane groenlandese orgogliosa di lasciar trapelare “squarci di biancheria rosa salmone”), le prime differenze (solo i danesi vivono in case con il parquet), i primi contrasti (i danesi giocano a carte mentre bevono whisky e gli Inuit bevono solo impiak, birra locale di orzo importato).
Passa in rassegna molte città della costa sud occidentale, dalla capitale Godthaab, meno pittoresca di quanto si aspettasse, alla mitica Thule, una delle più antiche località esquimesi, fino alla bella Siorapaluk, “la spiaggetta così deliziosa” meta delle sue ricerche; nota subito che “lo spirito colonialista è sempre pronto ad afferrarvi” e percepisce le prime avvisaglie di cambiamenti repentini e di rivendicazioni autonomiste; già nel 1950 il 15% della popolazione è immigrata dalla Danimarca, i due terzi vive nelle città della costa e solo il 12% è rimasta nei tradizionali villaggi di cacciatori: “con poche parole vengono rievocate una vita patriarcale di borgo, le sue gioie rare e modeste, un lavoro ripetitivo e monotono ma anche le stagioni, la loro diversità, gli uccelli migratori di giugno, il tempo dei mirtilli e dei funghi, l’odore della brughiera e la libertà della tundra, il disgelo, la caccia in acqua libera ai trichechi e alle balene, il ghiaccio di settembre, il vento e la lunga notte invernale...”

Le prime descrizioni della caccia alle urie, degli interni dell’igloo, del pranzo a base di foca e dei convenevoli per le visite di cortesia, persino dei primi uomini in kayak (“piccoli, la faccia gialla e piatta, illuminata da un enigmatico sorriso”) sono fatte con un tono di superiorità che un po’ sconcerta e un po’ incuriosisce per la semplicità e sincerità con cui lo studioso si rivolge al lettore: “non uno di questi uomini vorrebbe mancare dallo spaccio nei giorni di apertura. Per loro è una festa. Il pisignarfik, pensate un po’!. E’ innanzitutto un’occasione per riunirsi e all’Eschimese piace spettegolare”... un po’ quello che facciamo noi occidentali moderni quando ci accalchiamo nei centri commerciali!
“Lo spaccio europeo ha fatto nascere in lui nuove abitudini. Si è adattato alle nostre usanze, la sua alimentazione si è modificata... il suo modo di vita domestico trasformato... e questo con autentica mentalità da produttore... con un primato delle spese delle spese di equipaggiamento, cioè degli “investimenti produttivi” su tutte le altre voci... e con un bilancio medio della famiglia esquimese superiore a quello di certe società contadine della vecchia Europa”. Sorpresi?

E da questo momento il tono dello studioso cambia e si orienta verso l’ammirazione egli impone di intitolare un paragrafo “Gli esquimese sono i mecenati della loro stessa storia”: il distretto di Thule, infatti, grazie alla fortunata risorsa della caccia alla volpe, ha potuto fornire al suo direttore di allora, l’esploratore Knud Rasmussen, e al suo personale, un reddito annuo relativamente elevato, ha potuto sopperire ai bisogni dei servizi sanitari e della navigazione e ha inoltre sopportato gran parte delle spese necessarie alla realizzazione delle spedizioni etnologiche ed archeologiche dette di Thule intraprese tra il 1910 ed il 1913 dallo stesso Rasmussen; con quei viaggi e con le successive pubblicazioni, gli Inuit si sono assicurati per primi il titolo di mecenati della eschimologia moderna: “Io non so di nessun altro caso di società arcaica che abbia realizzato, materialmente e malgrado un reddito proporzionalmente piccolo, un pluriennale programma di studi sulla sua storia, estese su un ampio fronte di 15.000 km. I 250 esquimesi polari hanno contribuito a gettare le fondamenta anche della storia artica di nazioni così potenti come gli Stati Uniti ed il Canada... e la Danimarca è loro debitrice di essere stata elevata, sul piano scientifico, al rango di grande nazione artica. Pensando all’avvenire di questo popolo esemplare, bisognerà non scordarsene”.
Peccato che Malaurie non sia stato invitato ai lavori di Copenaghen sul clima del 2009!

Il suo volume è pieno di informazioni dotte raccolte sul campo, un vero manuale di introduzione ed approfondimento della vita Inuit, ricco di aneddoti ed episodi reali, oltre che di lunghe ed articolate narrazioni di importanti spedizioni scientifiche ed esplorazioni artiche.
“Una società letteralmente costretta alla saggezza dalla durezza delle condizioni materiali alle quali è sottomessa, tradizioni che rimangono vitale perché esprimono imperativi immemorabili di organizzazione dai quali dipende la sopravvivenza, una cosmografia infinitamente più articolata e gerarchizzata di quanto non sembri a prima vista, perché è importante, sotto la minaccia diretta e permanente dell’ambiente, che la funzione di ognuno sia rigorosamente determinata...”
E ancora un’analisi puntuale ed una sintesi perfetta: “Certamente, il popolo eschimese da almeno sei secoli non ha più Storia nel senso stretto del termine, ma dispone di una memoria che mantiene vivo il ricordo di un passato lontano di supremazia e di orgoglio quale fu per la sua razza, vicino alla foresta canadese e alaskiana, la lotta implacabile contro l’Indiano e altrove contro il Vichingo. Infine porta in sé soprattutto la fierezza di avere vinto e dominato l’ambiente stesso: l’implacabile deserto di ghiaccio."
Un libro davvero insostituibile, indispensabile nella biblioteca dell’appassionato studioso di cultura Inuit!

Jean Malaurie è un professore francese di antropologia ed ecologia artica all’Ecole des Hautes Etudes, oltre ad essere direttore della Fondazione francese di studi nordici.
Nel 1950, dopo aver trascorso un anno tra gli Inuit, decise di dedicare i suoi studi ad un popolo che egli qualifica “esemplare” e per vent’anni ha ripetuto le sue missioni solitarie dalla Groenlandia allo stretto di Bering fino alla Siberia orientale. Parla correntemente la lingua degli Inuit e, consapevole dell’infinita complessità del genio di un popolo, è convinto che “solo condividendone la vita e le prove sia possibile avvicinarsi, per le più diverse strade, alla conoscenza etnologica”.
Oltre al testo che lo ha reso famoso in tutto il mondo, Jean Malaurie ha prodotto moltissimi studi scientifici di geomorfologia dinamica, paleoclimatologia, demografia ed etnostoria; dirige la rivista internazionale “Internord” e ha realizzato varie serie di film sui popoli artici per la televisione francese, purtroppo mai distribuiti in Italia, tra cui un documentario dallo stesso titolo del libro "Les derniers rois de Thulé".
Per saperne di più visita il sito: www.jean-malaurie.fr

 

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