Acquavite, filuferro, mirto, malvasia, cannonau… occorre una discreta scorta di
questi tipici prodotti sardi per mettersi in viaggio durante l’inverno e per
vincere il freddo e l’umidità!
Siamo partiti dalle spiagge di sabbia bianca di Alghero, seguendo con
trepidazione i quattro tentativi di partenza del nostro amato amico sardo che
stentava a ricavare un posticino per i piedi tra le bottiglie di vini e liquori
stivate con cura nel pozzetto del suo kayak...
Costantino è stata una preziosa guida turistica nel nostro secondo viaggio in
Sardegna, generoso dispensatore di gocce di saggezza ed impareggiabile
conoscitore della sua amata terra, capace di confezionare racconti sull’isola a
tal punto intriganti da renderla ancor più affascinante e misteriosa, sempre
pronto ad animare il nostro passaggio lungo la costa occidentale con preziose
indicazioni sulle tradizioni gastronomiche locali.
La prima tappa irrinunciabile e programmata è stata proprio al paesino di Bosa,
arroccato sulle sponde del fiume Temo che disegna ampie volute prima di tuffarsi
in mare nei pressi di scogliere dalla bellezza conturbante: stratificazioni di
pietra lavica, di calcare merlettato e di rocce rosso fuoco, puntinate di
tondeggianti piantine di euforbia, una incredibile tavolozza di colori che la
natura ha saputo mescolare sulle scogliere a strapiombo sul mare intorno alla
torre Argentina, privilegiato punto di osservazione di un tratto di costa
davvero impressionante.
Siamo sbarcati proprio ai piedi delle tipiche Sas Conzas, vecchie concerie
tardivamente dichiarate monumento nazionale che ricordano i docks londinesi,
solo un tantino malmessi, i mattoni rossi delle facciate tutte uguali, due
finestre ed un grande portone che sorridono al paese; non è difficile trovare il
bar del ponte vecchio dove servono ricolmi bicchierini di profumata malvasia
agli avventori di passaggio, che raramente devono presentarsi al banco in
calzari e muta di neoprene, giacca d’acqua e cappello di lana ben calcato sulle
orecchie...
Ripetiamo l’esperienza delle due notti passate e montiamo il campo in un vero
angolo di paradiso, l’ansa protetta del fiumiciattolo di Punta Foghe, una colata
lavica incuneata nel letto del fiume e nuovamente scavata dalle acque, dove
un’ampia grotta mangiucchiata dal vento è stata magistralmente trasformata da
qualche volenteroso pescatore estivo in un accogliente tri-locale vista mare,
con tanto di tavolone 6 posti con panche e sedie, scaletta in legno con
corrimano, angolo cottura con ripiani per cartoni e giornali, terrapieni per
montare le tende e lampadari per creare l’atmosfera… una serata a casa dei
Flintstones!
Costantino si cimenta in un rapido tuffo nelle acque ghiacciate del fiume,
facendoci sobbalzare per il timore che fosse involontariamente scivolato sui
ciottoli levigati e melmosi del fondo, richiamando la nostra attenzione con un
gridolino di piacere (?) prima di uscire soddisfatto e... lavato!
E’ stata una doccia unica, in effetti, proprio nel senso che si è trattato
dell’unica doccia di acqua dolce che ci siamo potuti permettere durante i
tredici giorni di campeggio itinerante... per non parlare delle mute, che mute
non erano più alla fine del viaggio avevano ormai una enormità di cose da
raccontare...
Le emozioni provate valevano di gran lunga la fatica: ogni sera
un cielo stellato come pochi, le nuove costellazioni “invernali” da scoprire tra
Cassiopea girata all’ingiù ed Orione sdraiato sull’orizzonte, il sorgere della
luna a rincorrere il tramonto del sole, le tonalità sanguigne della sera che
macchiano di rosso il mare e le oscurità lunari che lentamente illuminano le
pareti rocciose, il fluire silenzioso del kayak che si insinua nelle baie più
nascoste per sottrarsi al maestrale, le grandi spiagge deserte restituite al
loro splendore tanto è lontano il ricordo degli ombrelloni estivi, la solitudine
confortante dei naviganti quando intorno non si scorge anima viva, le lunghe
pagaiate sull’acqua che raccolgono energia fluida e rilasciano sorrisi
rilassati, i colori cerulei dell’inverno che tingono il cielo nuvoloso ma non
trasmettono tristezza, il fuoco a scaldare le cene animate e conviviali, i ritmi
imposti dallo scorrere del giorno e della notte, i piccoli piaceri della vita
quotidiana che magicamente si amplificano, il veglione di Capodanno festeggiato
alle 19,30 e poi in tenda ad allontanare la sveglia della mattina dopo, sempre
puntuale alle 4,30...
Proseguiamo il viaggio verso sud al ritmo di circa 30 km al giorno, anche se
talvolta non riusciamo a rispettare la tabella di marcia perché ci godiamo il
sole della pausa pranzo, oppure perché perdiamo tempo a cercare un negozio di
alimentari (non aprono mai prima delle 17,30 quando per noi è ormai tempo di
sbarcare perché è buio pesto!), o ancora perché qualcuno rallenta la marcia
rivendicando una sosta tecnica prima di una contestata traversata (ma non
dovevamo viaggiare “sottocosta”?) o semplicemente perché il gruppo scopre con
raccapriccio di non essere costituito soltanto da “uomini veri”... la fanciulla
ben presto si ammala e si spaventa, rallenta inesorabilmente l’avanzata degli
intrepidi compagni e quando il forte vento gonfia il mare alle sue spalle riesce
solamente a timonare e a piangere, nonostante i consigli ed i suggerimenti e le
attenzioni e le spiegazioni dei suoi angeli custodi (“Non ti preoccupare, è solo
acqua che sale e acqua che scende!”).
E mentre lei cerca invano di mandar via la sua paura, uno scatta fotografie e
gira persino dei filmati, l’altro plana sulle onde come fosse su una tavola da
surf ed il terzo non la smette di urlarle dietro “pagaia, forza, pagaiaaaaa”!
Dopo Capo Marargiu è la volta di Capo Mannu e ancora si intravede alle nostre
spalle il profilo inconfondibile di Capo Caccia... dopo la mitica spiaggia di “Su Pallosu” (che ci accompagnerà nel ricordo del nome bizzarro per l’intero
viaggio), e dopo le scogliere di incredibili blocchi di pietra lavica (come
fossero enormi tocchi di quello zucchero nero che i bambini trovano nella calza
della Befana quando sono stati cattivi), si susseguono ampie radure pianeggianti
disseminate di campi coltivati e separate dal mare da sottili lingue di spiaggia
formata da piccolissimi sassolini bianchi sulle quali si alza magicamente in
volo una famigliola di fenicotteri rosa… uno spettacolo indimenticabile, che
solo il povero Mauro non riesce a cogliere, indispettito da una insidiosa
barriera di scogli affioranti che lo costringono a “tagliare” al largo... magari
avrebbe urlato anche contro i fenicotteri, come è solito fare contro i gabbiani
ed i cormorani ogni volta che volano troppo bassi ed incrociano la sua rotta,
fedele alle sua teoria evoluzionistica secondo la quale prima dell’avvento degli
uccelli tutte le rocce della terra erano NERE!
Oltre un relitto arrugginito che spunta dalle acque si intravede Capo S.Marco,
che nasconde le rovine della mitica Tharros e che accoglie uno dei campi
notturni più umidi dell’intera escursione… neanche il mirto ci permette di
trascorrere più di 7 minuti a chiacchierare dopo cena, costretti dai primi
dolori ossei a rifugiarci in tenda, nei sacchi a pelo e nelle calze di lana
opportunamente stivate insieme al bagaglio!
Siamo ormai all’altezza del Golfo di Oristano e senza la benché minima
esitazione tagliamo direttamente su Capo Frasca, dove a discapito del nome non
cresce neanche un arbustello e dove ci concediamo una breve sosta sopportando la
gelida brezza che si è alzata da terra e che costringe il gruppo a ripararsi
dietro un... ordigno bellico!
Il tratto di costa forse più bello è quello intorno a Capo Pecora, poco più a
sud delle dune altissime di Piscinas, che d’inverno acquistano un fascino
particolare perché sono assolutamente deserte, silenziose e magiche; per non
parlare della bellezza intrinseca di Cala Domestica, nascosta dietro pareti
rocciose rossastre e bucherellate dalle miniere di un tempo passato; miniere che
hanno segnato anche la costa sud-occidentale, tanto che proprio di fronte
all’isola Pan di Zucchero si apre l’impressionante portone di ingresso di Porto
Flavia, avveniristico molo del periodo fascista sospeso ad una decina di metri
sul livello del mare e ricavato direttamente nella parete verticale per
facilitare il carico sulle navi dei minerali estratti dalla montagna...
Siamo tornati dal viaggio perdutamente innamorati della Sardegna, ammaliati
dalla bellezza delle sue terre selvagge ed intrigati dal carattere misterioso
della sua gente, scivolata sui sequestri di persona ma cullata dalle misteriose
civiltà nuragiche e megalitiche!
Andremo tutti a vivere laggiù, un giorno, ne sono certa!
Passiamo velocemente lungo le coste delle isole di S.Pietro e di S.Antioco,
senza sbarcare nei paesini affacciati sul porto e che dicono essere molto
caratteristici; il tempo stringe, attraversiamo il grande stagno pieno di aironi
cinerini dove l’acqua è calma come l’olio (e anche un po’ dello stesso colore),
pagaiamo nel paesaggio invernale in perfetta sintonia con il silenzio e la
solitudine che ci circondano, un po’ stregati dalla superficie del mare talmente
piatta da riflettere la nostra immagine in maniera perfetta ed ipnotica; ci
accampiamo a fine giornata sotto i pini bassi della spiaggia di Porto Pino, a
due passi dalla zona militare di Capo Teulada che mantiene intatta, forse perché
inavvicinabile, tutta la sua bellezza selvaggia; riusciamo a passare il Capo
nonostante le previsioni dell’arrivo del maestrale con venti a 30 nodi (di
poppa) vengano puntualmente confermate, ma proprio quando pensiamo di essere
riparati le raffiche raggiungono i 45 nodi (di prua, stavolta) e non ci
permettono di avanzare.
La giornata successiva è quindi dedicata a recuperare il terreno perduto a causa
della tappa forzata, ma scopriamo con sorpresa che percorrere 40 km in allegra
compagnia non è un’impresa impossibile neanche in inverno, quando le ore a
disposizione sono ridotte e l’umidità che ti entra nelle ossa rallenta ogni
movimento… superiamo d’un fiato Capo Malfatano e Capo Spartivento, e dopo un po’
ci accampiamo soddisfatti per l’ultima notte a Torre Pula, in una baia
incantevole chiusa dal profilo rassicurante del faro e che la mattina dopo viene
avvolta in una fitta nebbia tipo “val padana” per il fuoco acceso nel giardino
signorile dei nostri “vicini”. Riprendiamo a pagaiare sottocosta fino al capo
che Francesco sostiene essere stato così battezzato in mio onore, Punta Zavorra,
dopodiché ci avventuriamo alla volta di Cagliari nella recondita speranza di non
tagliare la strada a traghetti di linea, navi mercantili e porta-container,
disdegnando la visita alla costa che in quel tratto è invasa da stabilimenti
petrolchimici, raffinerie e porti commerciali...
Durante il viaggio il tempo è stato clemente e ha premiato la nostra audacia, la
temperatura notturna non è mai scesa sotto i 4-5 gradi e quella diurna ha
raggiunto picchi anche di 18-20 gradi, il sole splendeva tutte le mattine ed il
riverbero sull’acqua ci ha fatto subito abbronzare neanche fossimo stati sulla
neve; in un paio di occasioni abbiamo anche pagaiato in maglietta e siamo
persino riusciti a fare asciugare al sole tutta l’attrezzatura che durante la
notte si era inzuppata di umidità (quella sì fin troppo presente!); inoltre,
quelle due gocce di pioggia non hanno disturbato né il sonno né le operazioni di
dismissione del campo e una volta abbiamo anche bivaccato senza montare le
tende, temendo più per la frana incombente sulle nostre teste che non per il
rischio di congelamento... solo l’ultima notte la temperatura è scesa sotto lo
zero e la mattina dopo abbiamo trovato la brina ghiacciata intorno alle tende,
ma eravamo ormai in dirittura d’arrivo!
Quando finalmente siamo sbarcati al Poetto, la spiaggia attrezzata di Cagliari
(c’è persino un locale PUBBLICO con bagni e spogliatoi vicino al porticciolo
turistico!), abbiamo trovato ad attenderci un nutrito gruppo di amici di kayak
che ci ha riservato un’accoglienza calorosa e festante, tanto che le loro
attenzioni premurose hanno reso il nostro rientro nella “normalità” caotica e
rumorosa tutt’altro che traumatico, anzi morbido ed indimenticabile!
Sono stati davvero impagabili, come impagabile è stato il viaggio che ci ha
regalato il capo-spedizione, Francesco, anche se per tutto il tempo l’ho
insultato accusandolo di essere un seviziatore sadico che mi vietava di
mangiare, dormire e sbarcare perché era più importante pagaiare... spero proprio
che ci porti ancora con sé nei suoi viaggi intorno al Mediterraneo!!!
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