Nanook
of the North è un film documentario che ha fatto la storia del cinema.
Realizzato nel 1922 dal regista Robert J. Flaherty, che aveva a lungo vissuto
con il popolo Inuit ed aveva così voluto portare sullo schermo il loro stile di
vita, il film ha segnato la nascita del documentario etnografico, anche se ha
sollevato critiche severe per avere distorto la realtà rappresentandola con
sequenze ricostruite: l’ultima scena, per esempio, è interamente girata
all’interno di un igloo, allargato per poter ospitare la cinepresa; Nanook non
era il vero nome del protagonista e Nyla non era la sua vera moglie; inoltre, il
protagonista già cacciava con il fucile, ma Flaherty lo convinse a cacciare
secondo i vecchi metodi adottati prima dell’influenza europea.
Flaherty aveva realizzato la pellicola ben prima del 1922 ma gli aveva dato
accidentalmente fuoco con una sigaretta; finanziato dalla compagnia francese di
pellami dei Fratelli Revillon, il film è stato poi nuovamente girato tra
l’agosto del 1920 e l’agosto del 1921 vicino Inukjuak, nella Hudson Bay del
Quebec Artico Canadese; il regista-esploratore aveva scelto di girare sul posto,
lontano dal set cinematografico e senza attori protagonisti, dando vita così ad
un cinema di innovazione, “a story of life and love in the actual artic”
recitava una delle prime locandine del film.
Nel
1989 Nanook of the North è stato il primo dei 25 film selezionati dalla
Biblioteca del Congresso Statunitense per essere “culturalmente, storicamente ed
esteticamente significativo”.
Vengono ripresi i metodi tradizionali del popolo Inuit di cacciare, pescare,
costruire il kayak e l’igloo, lavare i bambini, proteggere i cani... e viene
raccontata la storia irresistibile di una piccola famiglia che lotta per
sopravvivere contro le avversità di una natura ostile e fredda ma pur sempre
accogliente e salvifica.
Una delle scene iniziali rimane fortemente impressa: Nanook si appresta a
trasferire la famiglia lungo il fiume per raggiungere il centro commerciale
dell’uomo bianco; dal kayak avvicinato alla riva scendono quindi Nanook, il
figlio più grande disteso sul ponte anteriore, la prima moglie Nyla infilata a
prua con il bimbo neonato nel cappuccio di pelle, la seconda moglie Cunayou
imbarcata a poppa ed infine un cucciolo di huskye.
Il kayak deve essere restaurato ogni anno, al massimo ogni due, ed il
lavoro può essere eseguito soltanto durante la bella stagione; in estate viene
sostituita la pelle di foca che riveste la struttura interna di legno e le
donne, cui è demandata la concia delle pelli e che consumano i denti fino alle
gengive per ammorbidirle con la saliva, cuciono con aghi di avorio e con fili di
pelle.
Il kayak viene utilizzato per la pesca al salmone e per la caccia al tricheco ma
l’occhio attento noterà alcune curiosità: la pagaia lunga con gli sgocciolatoi,
la pagaiata bassa e veloce, il pozzetto largo, la pelle di foca sul ponte
posteriore che scompare nelle scene successive, la pagaia infilata sotto le cime
del ponte anteriore prima di ogni sbarco… nonostante la stagione estiva,
potevano prendere il mare senza tuilik, il tipico giaccone con cappuccio e
paraspruzzi incorporato?
Colpisce sopra ogni cosa il contrasto tra la dolcezza del piccolo gruppo di
uomini e donne Inuit e la durezza della vita quotidiana tra i ghiacci, tra
l’esiguità delle cose a loro disposizione e la grandezza del mondo che li
circonda, tra la brutalità della caccia a mani nude e la genialità delle
tecniche adottate.
Affascina la scoperta di tanti piccoli stratagemmi che rendono la vita meno
dura: il muschio utilizzato come combustibile, i pezzetti di avorio usati come
esca nella pesca, la stuoia di rametti secchi come giaciglio per non rimanere
incollati al ghiaccio, la saliva usata come sciolina per la slitta, il lungo
coltello multiuso reso tagliente e ghiacciato leccandolo con la lingua.
Incuriosisce la costruzione dell’igloo, la capacità di saper scegliere il luogo
adatto e la maestria nel tagliare i blocchi di neve e di ghiaccio, l’arte di
sovrapporre pezzi ad incastro e la magia nel creare dal nulla uno spazio chiuso
ma bianco come l’immenso spazio circostante, caldo ma non troppo, tanto che il
fiato si condensa in nuvolette che si disperdono velocemente, una casa solo per
qualche giorno lasciata poi a qualche altra famiglia giunta da qualche altro
luogo.
Seduce lo sguardo dei bambini, sia quando mangiano i biscotti guarniti di lardo
e sia quando bevono l’olio di ricino… i sorrisi delle donne, sia quando lavano i
bambini con la saliva e sia quando li imboccano tenendoli nel cappuccio di
pelliccia... il volto fiero del grande cacciatore, sia quando prepara la muta dei
cani per trainare la slitta e sia quando gioca con arco e frecce con il suo
primogenito.
Conquista lo stile narrativo adottato, simile a quello del cinema muto europeo
degli anni immediatamente successivi: 80 campi neri con poche parole
esplicative, nessun dialogo scritto, nessuna voce fuori campo; solo una colonna
sonora omogenea, una musica strumentale suonata da un ristretto complesso di sei
musicisti e composta sulla trama del film, il contrabbasso nelle scene di
caccia, il pianoforte nelle scene familiari, un violino, un clarinetto e delle
percussioni di tanto in tanto. Un film mai noioso e sempre poetico, istruttivo
ed appassionante.
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