Ombre
Bianche è il solo film italiano realizzato sul popolo Inuit inserito nella
rassegna 2009.
Nato nel 1959 da una co-produzione italo-franco-britannica, tratto dal romanzo
di Hans Ruesch “Il paese dalle ombre lunghe” (Top of the world), sceneggiato
dallo scrittore insieme a Nicholas Ray e Franco Solinas, è conosciuto con tre
titoli differenti: quello originale inglese “Il selvaggio innocente” (The savage
innocentes), quello francese “I denti del diavolo” (Les dents du diable) ed
infine quello italiano con cui lo conosciamo.
Presentato come un grande film d’avventura, incentrato sui due temi cari al
regista Nicholas Ray della bellezza e della violenza della natura, sostenuto da
una fotografia bellissima, è però antropologicamente schematico e presuntuoso:
traspare una concezione eurocentrica, di superiorità culturale, religiosa e
giuridica; predomina un atteggiamento di accondiscendenza verso quei lontani
selvaggi, di forzata tolleranza, di necessaria civilizzazione e conversione al
cristianesimo; prevale la necessità di “fare giustizia” piuttosto che quella di
“scoprire il diverso”, l’esigenza di rappresentare il bianco evoluto e
l’eschimese arretrato, il desiderio di dipingere la crudeltà del selvaggio e la
nobiltà d’animo dell’europeo.
La trama è semplice ed avvincente.
Inuk, valoroso cacciatore dal carattere orgoglioso, interpretato da un
incredibile Anthony Queen, deve prendere una moglie: combattuto tra due sorelle,
sceglie finalmente la bella Assiak e costituisce con lei la sua nuova famiglia.
Sedotto dalla possibilità di cacciare più facilmente, Inuk decide di scambiare
100 pelli di volpe bianca per un fucile e raggiunge l’accampamento dell’uomo
bianco, dove incontra un missionario. Visibilmente offeso dal rifiuto dell’uomo
di trascorrere la notte con la sua bella Assiak, secondo il costume locale, Inuk
lo aggredisce ed involontariamente lo uccide. Dopo diversi inverni, quando ormai
Inuk ha dimenticato l’accaduto e vede crescere felice il suo primogenito, viene
raggiunto da due poliziotti bianchi che tentano di arrestarlo: uno rimane
vittima di un incidente tra i ghiacci ed il secondo, un giovanissimo Peter O’Toole,
viene salvato da Inuk da un principio di congelamento e trascorre con la coppia
un lungo periodo, sufficiente per fargli comprendere ed apprezzare le tradizioni
e le credenze Inuit.
Uno dei meriti del film, uscito molti anni dopo il primo lungometraggio sul
popolo Inuit “Nanook of the north”, è quello di avere utilizzato per il
protagonista il nome proprio di “Inuk”, che in lingua Inuktitut, significa
“essere umano” e che al plurale diventa per l’appunto “Inuit”, termine con il
quale si identificano i popoli nativi delle regioni artiche.
Il termine “eschimese” (eskimo in inglese o esquimaux in francese) significa
“coloro che parlano una lingua straniera” o anche “coloro che mangiano carne
cruda”, ma fino ai primi anni settanta era utilizzato in senso dispregiativo; il
termine “inuit”, invece, significa semplicemente “gente” o “essere umano” ed è
sempre stato utilizzato dagli Inuit per distinguere se stessi dagli altri essere
sensibili: gli animali (uumajut), gli spiriti (ijiqqat), gli europei (qablunaat
o tan’ngit).
Nel
film, una voce fuori campo offre una interpretazione differente e criticabile,
spiegando che gli eschimesi sono persone talmente presuntuose da avere chiamato
se stesse “Gli Uomini”, quasi fossero gli unici uomini al mondo. Gli Inuit sono
un popolo orgoglioso ma umile, consapevole della forza dominante della natura;
la scelta di chiamarsi “uomini” è stata dettata solo dall’esigenza di
distinguersi dalle altre forme viventi, alle quali hanno sempre attribuito
l’esistenza di un’anima (animali, spiriti e piante) e hanno sempre riconosciuto
una eguale dignità di stare al mondo.
Il termine Inuit è stato finalmente riproposto a livello ufficiale nel 1971
dalla Inuit Tapirisat of Canada (Associazione delle Fratellanza Inuit del
Canada), di cui era allora Presidente Tagak Curley, che ai funzionari
governativi convinti che i canadesi non avrebbero capito rispondeva sempre “non
è un problema nostro, impareranno abbastanza in fretta”.
Gli Inuit del Lario, sul blog cui dedicano molto spazio al popolo Inuit, hanno
posto la questione: in base alla decisione di utilizzare il nome Inuit, anche
gli anglosassoni hanno cambiato l’espressione “Eskimo roll” in quella più
appropriata di “Inuit roll”, per descrivere la manovra di auto salvataggio che
permetteva ai cacciatori in kayak di recuperare la posizione una volta perso
l’equilibrio e di salvarsi così da morte certa nelle gelide acque polari.
Dovremmo cambiare anche la parola “eskimo” … ma non sembra affatto facile
trovarne una alternativa!
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