TATIYAK - Cineforum Inuit 2009

The Journals of Knud Rasmussen
Regia di Norman Cohn e Zacharias Kunuk
Musica di Richard Lavoie
Protagonisti: Pakak Innuksuk, Leah Angutimarik, Jens Jørn Spottag, Neeve Irngaut
Film a colori in danese ed inuktitut con sottotitoli in francese
Durata 112 minuti

Scheda a cura di Tatiana Cappucci

Un gran bel film; ideato, interpretato, realizzato, prodotto e distribuito dalla stessa casa cinematografica Inuit che ha promosso anche il precedente capolavoro degli stessi registi: “Atanarjuat – The fast runner”.
Un po’ lento ma con potenti effetti evocativi delle tradizioni e delle superstizioni Inuit, con una continua mescolanza di scene reali e soprannaturali, di video moderno e di antica arte narrativa Inuit.
La prima scena è molto accattivante: una famiglia Inuit che si prepara ad essere fotografata e la cui immagine lentamente scolora in un suggestivo bianco e nero.
Presentato nel 2006 al Toronto Film Festival, il film racconta la vera storia dei primi contatti intorno al 1920 tra gli europei ed una piccola comunità Inuit, descritti dall’esploratore Rasmussen nei diari della sua quinta spedizione a Thule attraverso l’Artico Canadese, una sorta di avventura antropologica resa ancora più ricca ed avvincente dalla sua profonda conoscenza della lingua, della storia e della terra Inuit.
A quel tempo, gli Inuit vivevano una fase di transizione culturale e religiosa, passando dall’animismo e dallo sciamanesimo che molti cacciatori ancora praticavano al cristianesimo imposto loro in maniera un po’ forzata dai primi missionari europei.

Il grande sciamano Avva (Pakak Innuksuk) e la sua famiglia vivono sulla banchisa ad una certa distanza da Iglulik; la sua piccola comunità ha raccolto gli insegnamenti dei missionari cristiani. Li raggiunge il grande esploratore Rasmussen, accompagnato dal commerciante Freuchen e dall’antropologo Mathiassen, i tre attori danesi della pellicola, per sentire e registrare le storie di vita di Avva e di sua moglie Orulu. Istintivamente, il loro figlio Natar sceglie di guidare Freuchen e Mathiassen a nord verso Iglulik. Ma lo sciamano Avva e la sua comunità devono affrontare un viaggio molto difficile verso casa, con forti venti contrari ed una carestia prolungata che li porta quasi in fin di vita.
Inoltre, lo sciamano e la sua famiglia sono chiamati a cimentarsi in una prova di gran lunga più impegnativa: il confronto con la nuova civiltà bianca, impersonata dagli uomini danesi, possenti e dai colori ramati.
Avva deciderà di abbandonare i suoi spiriti guida e loro vagheranno sulla banchisa gemendo prostrati.
Lungo la strada, le vicende della famiglia si intrecciano con quelle di Apak (Leah Angutimarik), la figlia forte e determinata di Avva che è ancora innamorata del marito defunto e non vuole saperne del secondo nuovo marito; sfida doppiamente la sua famiglia e le sue tradizioni, tradisce le aspettative che gli altri hanno riversato su di lei e si rifugia nella sua ancestrale capacità di evocare gli spiriti per continuare ad incontrare il marito in focosi amplessi che escludono gli altri uomini, annullano il tempo presente e sospendono la vita.
Scrutando il bel viso largo di questa giovane attrice mai comparsa prima davanti ad una cinepresa, si può misurare precisamente la temperatura emotiva della pellicola e, nonostante l’impenetrabilità della lingua, possiamo assorbire l’essenza di quello che si sta dicendo.

I due registi ritornano alle loro origini: gli attori impersonano i loro nonni, la piccola comunità di Iglulik vive sullo schermo la sua vita di qualche anno prima; l’intento della pellicola è dichiaratamente quello di contribuire a diffondere la cultura Inuit per preservarla dall’erosione del tempo e della modernità.
Occorre del tempo per acclimatarsi al film, meno dinamico del precedente in termini di narrazione e di azione fisica; questo secondo film è una storia intima, narrata tra i sussurri.
Inoltre, non è sempre facile distinguere tra realtà e sogno, tra protagonisti reali ed immaginari, tra uomini e spiriti; solo più avanti nel film si comprende che i secondi sono sempre vestiti di ricche pelli bianche; la sovrapposizione dei campi è volutamente complicata e macchinosa per rendere la complessa rete di relazioni sociali e spirituali del popolo Inuit.
Quando Avva presenta i membri della sua famiglia, ci si perde nei meandri di una lingua e di una cultura sconosciuta e si vive un senso di spaesamento, lo stesso che devono avere vissuto i primi esploratori entrati in contatto con i cacciatori Inuit e lo stesso che devono avere provato i vecchi sciamani Inuit avvicinati dai primi missionari che volevano sostituire velocemente 4.000 anno di storia con i Dieci Comandamenti.
Lo spettatore, come allora il primo esploratore, è tenuto fuori dal mondo Inuit, lontano dalla loro intimità, scostato dai loro riti, dalla loro lingua, dalle loro superstizioni… quasi a volersi proteggere, a voler preservare una dimensione atavica che sanno di essere destinati a perdere...
Molti dialoghi in lingua inuktitut non sono accompagnati da sottotitoli e spesso è la canzone a tenere alta l’emozione dello spettatore ed ad offrire una chiave di interpretazione unitaria della pellicola; l’esploratore bianco chiede allo sciamano di cantare e le sue canzoni esprimono gioia e tristezza; poi sarà lo sciamano a chiedere una canzone all’esploratore, che cantando trasmette emozioni profonde agli astanti, così diverse e lontane; non a caso, forse, i canti più stonati sono quelli intonati verso la fine del film durante un rito funebre dagli Inuit convertiti al cristianesimo.

         

Prima della presentazione ufficiale al Festival di Toronto, il regista Kunuk ha voluto offrire la visione del film alla sua piccola comunità Inuit nell’Artico Canadese, 2.800 km a nord di Toronto.
Una giornalista ha preso parte alla proiezione “privata” per saggiare le reazioni del pubblico, una sorta di giuria speciale capace di comprendere le multiformi qualità culturali del film: “La rigida temperatura scesa a 30 gradi sotto zero non ha scoraggiato queste persone che sono arrivare anche da molto lontano, in aereo da Qaanaaq in Groenlandia, per esempio.
Alcuni dicono di avere preferito il precedente Aranarjuat, basato su un leggenda Inuit, altri sostengono di essere stati ugualmente sedotti da questo secondo film, basato sulla storia vera dell’ultimo grande sciamano Avva. Ma tutti dicono di essere grati al regista per avere trattato un argomento tabù: lo sciamanesimo, considerato dai primi missionari opera del diavolo e oggi equiparato presso gli Inuit alle altre religioni monoteiste praticate, anglicana, cattolica ed evangelica”.
Da non sottovalutare l’impatto sociale ed economico del film sulla comunità Inuit: la Igloolik Isuma Production rappresenta una delle poche storie positive e gratificanti del moderno Nunavut, assume sempre attori Inuit, coinvolge ogni volta centinaia di comparse locali ed utilizza solo personale tecnico della zona, con una innegabile azione benefica per quella fragile realtà sociale, ancora afflitta da problemi di alcoolismo, suicidi ed abusi familiari.
 

home
tatiyak@tatianacappucci.it -
Tatiyak - viaggi in kayak a.s.d. - C.F. e P.I. 06558570963 - © 2009 MF