Un gran bel film; ideato, interpretato, realizzato, prodotto e distribuito dalla
stessa casa cinematografica Inuit che ha promosso anche il precedente capolavoro
degli stessi registi: “Atanarjuat – The fast runner”.
Un po’ lento ma con potenti effetti evocativi delle tradizioni e delle
superstizioni Inuit, con una continua mescolanza di scene reali e
soprannaturali, di video moderno e di antica arte narrativa Inuit.
La prima scena è molto accattivante: una famiglia Inuit che si prepara ad essere
fotografata e la cui immagine lentamente scolora in un suggestivo bianco e nero.
Presentato nel 2006 al Toronto Film Festival, il film racconta la vera storia dei primi
contatti intorno al 1920 tra gli europei ed una piccola comunità Inuit,
descritti dall’esploratore Rasmussen nei diari della sua quinta spedizione a
Thule attraverso l’Artico Canadese, una sorta di avventura antropologica resa
ancora più ricca ed avvincente dalla sua profonda conoscenza della lingua, della
storia e della terra Inuit.
A quel tempo, gli Inuit vivevano una fase di transizione culturale e religiosa,
passando dall’animismo e dallo sciamanesimo che molti cacciatori ancora
praticavano al cristianesimo imposto loro in maniera un po’ forzata dai primi
missionari europei.
Il
grande sciamano Avva (Pakak Innuksuk) e la sua famiglia vivono sulla banchisa ad
una certa distanza da Iglulik; la sua piccola comunità ha raccolto gli
insegnamenti dei missionari cristiani. Li raggiunge il grande esploratore
Rasmussen, accompagnato dal commerciante Freuchen e dall’antropologo Mathiassen,
i tre attori danesi della pellicola, per sentire e registrare le storie di vita
di Avva e di sua moglie Orulu. Istintivamente, il loro figlio Natar sceglie di
guidare Freuchen e Mathiassen a nord verso Iglulik. Ma lo sciamano Avva e la sua
comunità devono affrontare un viaggio molto difficile verso casa, con forti
venti contrari ed una carestia prolungata che li porta quasi in fin di vita.
Inoltre, lo sciamano e la sua famiglia sono chiamati a cimentarsi in una prova
di gran lunga più impegnativa: il confronto con la nuova civiltà bianca,
impersonata dagli uomini danesi, possenti e dai colori ramati.
Avva deciderà di abbandonare i suoi spiriti guida e loro vagheranno sulla
banchisa gemendo prostrati.
Lungo la strada, le vicende della famiglia si intrecciano con quelle di Apak (Leah
Angutimarik), la figlia forte e determinata di Avva che è ancora innamorata del
marito defunto e non vuole saperne del secondo nuovo marito; sfida doppiamente
la sua famiglia e le sue tradizioni, tradisce le aspettative che gli altri hanno
riversato su di lei e si rifugia nella sua ancestrale capacità di evocare gli
spiriti per continuare ad incontrare il marito in focosi amplessi che escludono
gli altri uomini, annullano il tempo presente e sospendono la vita.
Scrutando il bel viso largo di questa giovane attrice mai comparsa prima davanti
ad una cinepresa, si può misurare precisamente la temperatura emotiva della
pellicola e, nonostante l’impenetrabilità della lingua, possiamo assorbire
l’essenza di quello che si sta dicendo.
I due registi ritornano alle loro origini: gli attori impersonano i loro nonni,
la piccola comunità di Iglulik vive sullo schermo la sua vita di qualche anno
prima; l’intento della pellicola è dichiaratamente quello di contribuire a
diffondere la cultura Inuit per preservarla dall’erosione del tempo e della
modernità.
Occorre del tempo per acclimatarsi al film, meno dinamico del precedente in
termini di narrazione e di azione fisica; questo secondo film è una storia
intima, narrata tra i sussurri.
Inoltre, non è sempre facile distinguere tra realtà e sogno, tra protagonisti
reali ed immaginari, tra uomini e spiriti; solo più avanti nel film si comprende
che i secondi sono sempre vestiti di ricche pelli bianche; la sovrapposizione
dei campi è volutamente complicata e macchinosa per rendere la complessa rete di
relazioni sociali e spirituali del popolo Inuit.
Quando Avva presenta i membri della sua famiglia, ci si perde nei meandri di una
lingua e di una cultura sconosciuta e si vive un senso di spaesamento, lo stesso
che devono avere vissuto i primi esploratori entrati in contatto con i
cacciatori Inuit e lo stesso che devono avere provato i vecchi sciamani Inuit
avvicinati dai primi missionari che volevano sostituire velocemente 4.000 anno
di storia con i Dieci Comandamenti.
Lo spettatore, come allora il primo esploratore, è tenuto fuori dal mondo Inuit,
lontano dalla loro intimità, scostato dai loro riti, dalla loro lingua, dalle
loro superstizioni… quasi a volersi proteggere, a voler preservare una
dimensione atavica che sanno di essere destinati a perdere...
Molti dialoghi in lingua inuktitut non sono accompagnati da sottotitoli e spesso
è la canzone a tenere alta l’emozione dello spettatore ed ad offrire una chiave
di interpretazione unitaria della pellicola; l’esploratore bianco chiede allo
sciamano di cantare e le sue canzoni esprimono gioia e tristezza; poi sarà lo
sciamano a chiedere una canzone all’esploratore, che cantando trasmette emozioni
profonde agli astanti, così diverse e lontane; non a caso, forse, i canti più
stonati sono quelli intonati verso la fine del film durante un rito funebre
dagli Inuit convertiti al cristianesimo.
Prima della presentazione ufficiale al Festival di Toronto, il regista Kunuk ha
voluto offrire la visione del film alla sua piccola comunità Inuit nell’Artico
Canadese, 2.800 km a nord di Toronto.
Una giornalista ha preso parte alla proiezione “privata” per saggiare le
reazioni del pubblico, una sorta di giuria speciale capace di comprendere le
multiformi qualità culturali del film: “La rigida temperatura scesa a 30 gradi
sotto zero non ha scoraggiato queste persone che sono arrivare anche da molto
lontano, in aereo da Qaanaaq in Groenlandia, per esempio.
Alcuni dicono di avere preferito il precedente Aranarjuat, basato su un leggenda
Inuit, altri sostengono di essere stati ugualmente sedotti da questo secondo
film, basato sulla storia vera dell’ultimo grande sciamano Avva. Ma tutti dicono
di essere grati al regista per avere trattato un argomento tabù: lo
sciamanesimo, considerato dai primi missionari opera del diavolo e oggi
equiparato presso gli Inuit alle altre religioni monoteiste praticate,
anglicana, cattolica ed evangelica”.
Da non sottovalutare l’impatto sociale ed economico del film sulla comunità
Inuit: la Igloolik Isuma Production rappresenta una delle poche storie positive
e gratificanti del moderno Nunavut, assume sempre attori Inuit, coinvolge ogni
volta centinaia di comparse locali ed utilizza solo personale tecnico della
zona, con una innegabile azione benefica per quella fragile realtà sociale,
ancora afflitta da problemi di alcoolismo, suicidi ed abusi familiari.
|