TATIYAK - letture

Alla fine del mondo
Le grandi avventure polari
A cura di Jon E. Lewis – Newton Compton Editore 2008

Scheda del 23 marzo 2011 a cura di Tatiana Cappucci

Quando l’ho visto sugli scaffali della libreria l’ho preso senza pensarci su due volte: un libro di oltre 500 pagine sulle avventure polari, dalla copertina accattivante e pieno dei racconti scritti in prima persona dai grandi esploratori. Sembrava un’occasione davvero da non perdere.
La lettura, però, non è stata altrettanto esaltante e si è interrotta alla prima parte del volume, quella dedicata al Polo Nord...
La bibliografia richiamata è molto ricca ed interessanti sono anche le biografie finali che corredano i racconti, tra le righe delle quali si scoprono particolari interessanti della vita degli esploratori polari che ne fanno apprezzare ancor di più lo spirito di sacrificio e di avventura.
Ma lo sforzo introduttivo del curatore si riduce a quattro paginette per entrambi i Poli e alle brevi schede introduttive di ciascun capitolo. Solo poche parole meritano un richiamo: “Il Polo Nord, a pensarci bene, è uno strano oggetto del desiderio. Non vi si trova nulla, ad eccezione di uno strato di ghiaccio galleggiante spesso cinque metri e, forse, qualche uccello migratore, poiché nemmeno gli orsi polari si avventurano a cacciare a distanza di 725 km dalla terraferma. L’oceano, a queste latitudini, ha una profondità di 4087 metri. E per sei mesi l’anno, il Polo Nord è costantemente illuminato dal sole, ma per i restanti sei, il sole non oltrepassa la linea dell’orizzonte”.

Dopo una lettura durata pochi giorni, ho riposto il volume e ho fatto qualche ricerca; ho capito così che la mia insoddisfazione aveva giustificazioni più profonde: non solo l’estrema sintesi dei brani scelti e proposti al lettore, ma anche la parzialità e la superficialità hanno fatto indignare altri più illustri e preparati lettori.
Il prestigioso “Circolo Polare” ne offre una recensione illuminante: “Alla fine del mondo. Quasi un bidone!”
(http://www.circolopolare.com/ita/Recensioni_finedelmondo_lewis.htm).

Certo, si leggono in italiano brani tratti dai diari di viaggio degli esploratori polari che non solo sono di difficile reperibilità, essendo ormai molto datati, ma molti non sono neanche mai stati tradotti nella nostra lingua madre: e questo è di per se un bel vantaggio.
Tutti i diari, però, sono parziali e narrano solo una parte ridotta dell’avventura esplorativa.
Si legge così del “primo tentativo realistico della storia” di raggiungere il Polo Nord nel 1827 da Sir William Parry con una slitta marina, una barca dal fondo piatto lunga sei metri con due pattini fissati sulla chiglia per scivolare teoricamente meglio sul ghiaccio; della disavventura del capitano George Tyson che nel 1872 venne separato dalla sua nave a causa della rottura di un lastrone di ghiaccio e per mesi vagò alla deriva con altri 18 membri dell’equipaggio ed alcuni aiutanti Inuit; della geniale intuizione di Nansen di lasciare intenzionalmente che la sua nave Fram rimanesse incastrata tra i ghiacci per essere trascinata verso nord dalla corrente fino agli 84°04’N; della spedizione dell’etnologo canadese Vilhjalmur Stefansson, promotore della concezione dell’”Amico Artico” in virtù della quale l’uomo bianco, se ben preparato, può sopravvivere bene quanto gli Inuit; delle rivalità tra Cook e Peary che per anni si disputarono la conquista del Polo Nord, se di conquista si vuole proprio parlare; dell’incontro di Knud Rasmussen con gli Inuit di Thule nel corso della sua quinta spedizione del 1921-1924, quando gli Inuit non erano ancora stati “contaminati” dalla civiltà moderna; dell’ultima avventura pionieristica compiuta nel 1968 da Wally Herbert per attraversare la vetta del mondo... e di tanti altri più o meno fortunati viaggio verso l’estremo nord del mondo.

Solo due o tre passaggi meritano un richiamo: Parry scrive nel 1827 che “gli stivali eschimesi fabbricati in Groenlandia espressamente per noi sono di gran lunga migliori di qualsiasi altro stivale per questo tipo di viaggi”, Stefansson racconta in modo poetico del perché i bambini Inuit non vengono mai puniti o, meglio, nulla viene loro impedito, e Rasmussen riporta fedelmente un’antica leggenda Inuit sull’incontro con gli uomini che vivono al Nord.
Il passo più interessante, per noi, riguarda ovviamente il kayak: gli sventurati membri del gruppo di Tyson riescono a salvarsi dopo sei mesi trascorsi alla deriva sul ghiaccio anche per la presenza tra loro di due famiglie Inuit; quando il ghiaccio si frantuma, faticano a salvare o recuperare le attrezzature indispensabili alla sopravvivenza in quel clima ostile.
“Sul banco più piccolo si trovano ancora due kayak. Gli autoctoni sono attaccati ai loro kayak come un uomo bianco lo è alla propria pelle... Tali piccole imbarcazioni sono di inestimabile valore per gli eschimesi che sono abituati ad usarle; ma nessun altro è in grado di farci nulla. Mettersi in mare con questi leggerissimi gusci di pelle di foca sarebbe quasi come prendere il largo su una piuma di struzzo e pensare di tenersi a galla...”
Sono rimasta a riflettere a lungo leggendo questo passo: il kayak non è propriamente un guscio o una piuma e si è rivelato nel tempo una delle imbarcazioni più sicure e versatili.
E’ bello vedere che dal 1872 siamo stati capaci di apprezzare la cultura Inuit della navigazione in kayak e di farla diventare una componente fondamentale della nostra vita in mare.

Jon E. Lewis, storico e scrittore di alcuni volumi di storia e storia militare, è stato curatore anche di un’altra antologia di successo dal titolo analogo, “Sul tetto del mondo”.
 

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