Quando
l’ho visto sugli scaffali della libreria l’ho preso senza pensarci su due volte:
un libro di oltre 500 pagine sulle avventure polari, dalla copertina
accattivante e pieno dei racconti scritti in prima persona dai grandi
esploratori. Sembrava un’occasione davvero da non perdere.
La lettura, però, non è stata altrettanto esaltante e si è interrotta alla prima
parte del volume, quella dedicata al Polo Nord...
La bibliografia richiamata è molto ricca ed interessanti sono anche le biografie
finali che corredano i racconti, tra le righe delle quali si scoprono
particolari interessanti della vita degli esploratori polari che ne fanno
apprezzare ancor di più lo spirito di sacrificio e di avventura.
Ma lo sforzo introduttivo del curatore si riduce a quattro paginette per
entrambi i Poli e alle brevi schede introduttive di ciascun capitolo. Solo poche
parole meritano un richiamo: “Il Polo Nord, a pensarci bene, è uno strano
oggetto del desiderio. Non vi si trova nulla, ad eccezione di uno strato di
ghiaccio galleggiante spesso cinque metri e, forse, qualche uccello migratore,
poiché nemmeno gli orsi polari si avventurano a cacciare a distanza di 725 km
dalla terraferma. L’oceano, a queste latitudini, ha una profondità di 4087
metri. E per sei mesi l’anno, il Polo Nord è costantemente illuminato dal sole,
ma per i restanti sei, il sole non oltrepassa la linea dell’orizzonte”.
Dopo una lettura durata pochi giorni, ho riposto il volume e ho fatto qualche
ricerca; ho capito così che la mia insoddisfazione aveva giustificazioni più
profonde: non solo l’estrema sintesi dei brani scelti e proposti al lettore, ma
anche la parzialità e la superficialità hanno fatto indignare altri più illustri
e preparati lettori.
Il prestigioso “Circolo Polare” ne offre una recensione illuminante: “Alla fine
del mondo. Quasi un bidone!”
(http://www.circolopolare.com/ita/Recensioni_finedelmondo_lewis.htm).
Certo, si leggono in italiano brani tratti dai diari di viaggio degli
esploratori polari che non solo sono di difficile reperibilità, essendo ormai
molto datati, ma molti non sono neanche mai stati tradotti nella nostra lingua
madre: e questo è di per se un bel vantaggio.
Tutti i diari, però, sono parziali e narrano solo una parte ridotta
dell’avventura esplorativa.
Si legge così del “primo tentativo realistico della storia” di raggiungere il
Polo Nord nel 1827 da Sir William Parry con una slitta marina, una barca dal
fondo piatto lunga sei metri con due pattini fissati sulla chiglia per scivolare
teoricamente meglio sul ghiaccio; della disavventura del capitano George Tyson
che nel 1872 venne separato dalla sua nave a causa della rottura di un lastrone
di ghiaccio e per mesi vagò alla deriva con altri 18 membri dell’equipaggio ed
alcuni aiutanti Inuit; della geniale intuizione di Nansen di lasciare
intenzionalmente che la sua nave Fram rimanesse incastrata tra i ghiacci per
essere trascinata verso nord dalla corrente fino agli 84°04’N; della spedizione
dell’etnologo canadese Vilhjalmur Stefansson, promotore della concezione
dell’”Amico Artico” in virtù della quale l’uomo bianco, se ben preparato, può
sopravvivere bene quanto gli Inuit; delle rivalità tra Cook e Peary che per anni
si disputarono la conquista del Polo Nord, se di conquista si vuole proprio
parlare; dell’incontro di Knud Rasmussen con gli Inuit di Thule nel corso della
sua quinta spedizione del 1921-1924, quando gli Inuit non erano ancora stati
“contaminati” dalla civiltà moderna; dell’ultima avventura pionieristica
compiuta nel 1968 da Wally Herbert per attraversare la vetta del mondo... e di
tanti altri più o meno fortunati viaggio verso l’estremo nord del mondo.
Solo due o tre passaggi meritano un richiamo: Parry scrive nel 1827 che “gli stivali
eschimesi fabbricati in Groenlandia espressamente per noi sono di gran lunga
migliori di qualsiasi altro stivale per questo tipo di viaggi”, Stefansson
racconta in modo poetico del perché i bambini Inuit non vengono mai puniti o,
meglio, nulla viene loro impedito, e Rasmussen riporta fedelmente un’antica
leggenda Inuit sull’incontro con gli uomini che vivono al Nord.
Il passo più interessante, per noi, riguarda ovviamente il kayak: gli
sventurati membri del gruppo di Tyson riescono a salvarsi dopo sei mesi
trascorsi alla deriva sul ghiaccio anche per la presenza tra loro di due
famiglie Inuit; quando il ghiaccio si frantuma, faticano a salvare o recuperare
le attrezzature indispensabili alla sopravvivenza in quel clima ostile.
“Sul banco più piccolo si trovano ancora due kayak. Gli autoctoni sono attaccati
ai loro kayak come un uomo bianco lo è alla propria pelle... Tali piccole
imbarcazioni sono di inestimabile valore per gli eschimesi che sono abituati ad
usarle; ma nessun altro è in grado di farci nulla. Mettersi in mare con questi
leggerissimi gusci di pelle di foca sarebbe quasi come prendere il largo su una
piuma di struzzo e pensare di tenersi a galla...”
Sono rimasta a riflettere a lungo leggendo questo passo: il kayak non è
propriamente un guscio o una piuma e si è rivelato nel tempo una delle
imbarcazioni più sicure e versatili.
E’ bello vedere che dal 1872 siamo stati capaci di apprezzare la cultura Inuit
della navigazione in kayak e di farla diventare una componente fondamentale
della nostra vita in mare.
Jon E. Lewis, storico e scrittore di alcuni volumi di storia e storia
militare, è stato curatore anche di un’altra antologia di successo dal titolo
analogo, “Sul tetto del mondo”.
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