Forse qualcuno ricorda che con il suo precedente
lavoro, “Armi, acciaio e malattie – Breve storia del mondo negli
ultimi tredicimila anni”, Jared Diamond ha vinto il Premio Pulitzer
nel 1998.
Anche questo volume sulla scomparsa di alcune civiltà si preannuncia
come un grandioso affresco dinamico di nozioni scientifiche,
dall'antropologia all'ecologia, dall'epidemiologia alla geologia,
dalla linguistica alla storia economica a quella politica e
ovviamente alla geografia.
Però stavolta Diamond incentra le sue teorie sulla Groenlandia!
Sostiene
l’autore che ci sono alcuni fattori che determinano il crollo di una
civiltà: i danni ambientali, i cambiamenti climatici, l’ostilità
delle popolazioni vicine, la presenza di relazioni commerciali
amichevoli e la risposta della società ai suoi problemi ambientali.
Non si conosce alcun caso in cui la scomparsa di una società possa
essere unicamente attribuita al danno ambientale, mentre sono sempre
più d’uno i fattori che concorrono al collasso: così fu per l’Isola
di Pasqua, per l’Impero Romano, per gli antichi Maya. Il sottotitolo
del libro, proposto dallo stesso Diamond potrebbe quindi essere il
seguente: “Come alcune civiltà sono crollate per cause dovute ad una
componente ambientale ed in alcuni casi con il contributo dei
cambiamenti climatici, dell’ostilità dei popoli confinanti, della
fine delle relazioni commerciali e del modo di reagire ai problemi
propri di ogni società”.
Nei primi capitoli l’autore analizza i casi dell’Isola di Pasqua, un
classico esempio di crollo ecologico, delle Isole Pitcairn e
Henderson, crollate per la perdita di sostengo da parte dei popoli
vicini, e della civiltà Maya, estinta in seguito alla combinazione
di danni ambientali, crescita demografica e mutamenti climatici.
Negli ultimi capitoli, invece, studia la situazione delle civiltà
moderne, dal Rhuanda ad Haiti, dalla Cina all’Australia,
sottolineando come la globalizzazione impedisce ad una società di
crollare in isolamento ma al tempo stesso influenza le situazioni di
molti popoli in crisi.
Lo studioso osserva nel prologo che “per la prima volta nel corso
della storia, ci troviamo di fronte al rischio di un declino
globale. Al tempo stesso, però, siamo anche i primi ad avere
l’opportunità di imparare velocemente dalle esperienza di altre
società a noi contemporanee o del passato”. Ed è la profonda
convinzione che l’uomo moderno possa ancora invertire la rotta per
evitare la catastrofe ha indotto Diamond a scrivere questo saggio:
“Il passato è una sorta di grande banca dati da cui possiamo trarre
lezioni utili per continuare a far prosperare le nostre società”.
I capitoli centrali di questo mastodontico volume
di 600 pagine che si legge con estrema facilità sono dedicati alla
Groenlandia e alla fine dei vichinghi norvegesi: è il caso più
complesso di crollo del passato, quello su cui abbiamo il maggior
numero di informazioni poiché di trattava di una civiltà europea
alfabetizzata dalla scrittura comprensibile, l’esempio migliore per
spiegare come in un ambiente non favorevole il crollo della società
non è inevitabile, ma dipende invece dalle scelte compiute dalla
società stessa.
Perché in Groenlandia i primi norvegesi giunti con Erik il Rosso si
sono estinti mentre sulle Isole Orcadi, Shetland e Fær Øer hanno
prosperato? E perché mentre i groenlandesi norvegesi crollavano
sotto il peso delle difficoltà ambientali i loro vicini Inuit
riuscivano a sopravvivere? Cosa è successo?
Anche se si pensa spesso ai vichinghi come a dei temuti pirati, essi
erano anche agricoltori, commercianti ed esploratori; in seguito
all’esplosione demografica, la montuosa ed inospitale Svezia non era
più sufficiente ad ospitarli e sfamarli tutti, così presero la via
del mare verso occidente e per primi raggiunsero il Canada, avviando
un primo tentativo di colonizzazione delle Americhe quasi 500 anni
prima di Colombo. Ma commisero l’errore di mantenere nel nuovo
ambiente il vecchio sistema sociale, rigidamente gerarchico ed
impostato all’agricoltura e all’allevamento del bestiame, attività
di un certo rischio nelle fredde lande Groenlandesi. Probabilmente
smisero di mangiare pesce per distinguersi dai “primitivi locali”,
senza potersi sfamare adeguatamente solo con latte e yogurt. E non
furono capaci di instaurare rapporti amichevoli con le popolazioni
locali. La lontananza dalla madre patria divenne fatale quando i
commerci si fecero più difficili ed incrinarono l’identità cristiana
ed europea dei vichinghi.
Alcuni pensano che Erik il Rosso abbia coniato il termine di
Groenlandia per attrarre i suoi connazionali con l’inganno, facendo
loro credere che si trattasse di una terra verde e rigogliosa;
seppur coperta per molti mesi all’anno di ghiacci bianchi, quando
questi si sciolgono lasciano scoperta una terra soffice di muschio e
colorata di un’infinità di fiorellini. Forse il vichingo era in
buona fede.
I
due insediamenti principali erano situati a 61° e 64° nord, ben al
di sotto del Circolo Polare e ad una latitudine paragonabile a
quella di Bergen sulla costa occidentale della Norvegia. Il clima,
però, è più rigido, e le temperature inevitabilmente più basse. Tre
furono quindi i fattori che ebbero un impatto disastroso
sull’ambiente e di cui si resero responsabili i norvegesi in
Groenlandia: la deforestazione, l’erosione del suolo e
l’asportazione della copertura erbosa, causati rispettivamente dalla
necessità di costruzione, di allevamento e di coltivazione.
Perché allora gli Inuit non crollarono?
Gli Inuit hanno saputo meglio di altri popoli adattarsi alle
condizioni ambientali dell’Artico: poca legna per costruire case e
barche e per scaldarsi? Aggirarono il problema con gli igloo, i
kayak e le lampade alimentate col grasso di foca... in effetti,
qualche altro illustre studioso ha parlato di loro come della
civiltà della foca!
E così anche Jared Diamond parla dei kayak: come gli umiak,
erano fatti in pelle di foca, con un ponte pieno di armi per la
caccia e costruito su misura per la “corporatura, il peso e la forza
del vogatore”: il kayak “era letteralmente <<indossato>> dal suo
proprietario ed il sedile era un indumento cucito in modo da fare un
tutt’uno con il parka, per sigillarlo contro l’acqua e per garantire
che gli schizzi gelati sul ponte non lo bagnassero”. Quando un suo
collega ha tentato di “indossare” il kayak costruito da un Inuit, ha
dovuto presto demordere perché era troppo stretto per lui!
“Gli Inuit erano cacciatori flessibili ed evoluti, dotati di un gran
numero di strategie diverse. Oltre a cacciare i caribù, i trichechi
e gli uccelli terrestri, in modi non dissimili da quelli dei
norvegesi, gli Inuit si distinguevano dai vichinghi perché usavano i
loro veloci kayak per arpionare le foche e per catturare gli uccelli
marini in volo sull’oceano (questa mi giunge nuova!) e perché si
servivano dell’umiak per uccidere le balene in alto mare” con
un lavoro di squadra.
Inuit e norvegesi quasi non si incontrarono nel corso dei cinque
secoli di permanenza dei vichinghi in Groenlandia e non
intrattennero rapporti commerciali; inoltre, il rifiuto della loro
cultura costituì una grande perdita per i norvegesi, anche se non
potevano né volevano saperlo.
Nonostante tutto, l’autore è un cauto ottimista e
conclude la sua opera con queste semplici osservazioni: “ il mio
ultimo motivo di speranza è frutto di un’altra conseguenza della
globalizzazione. In passato non esistevano né gli archeologi né la
televisione. Nel XV secolo, gli abitanti dell’Isola di Pasqua che
stavano devastando il loro sovrappopolato territorio non avevano
alcun modo di sapere che, in quello stesso momento, ma a migliaia di
chilometri, i vichinghi della Groenlandia si trovavano allo stadio
terminale del loro declino... Oggi, però, possiamo accendere la
televisione o la radio, comprare un giornale e vedere, ascoltare o
leggere cosa è accaduto in Somalia o in Afghanistan nelle ultime
ore... Abbiamo l’opportunità di imparare dagli errori commessi da popoli distanti da noi nel tempo e nello
spazio. Nessun’altra società del passato ha mai avuto questo
privilegio”.
E conclude con un monito: “Ho scritto questo libro nella speranza
che un numero sufficiente di noi scelga di approfittarne”.
Approfittiamone!
Jared
Diamond è docente di geografia all’Università della California
di Los Angeles e membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze
americana.
Ha scritto diversi saggi di divulgazione scientifica, parla una
dozzina di lingue ed i suoi libri spaziano su campi diversi, dalla
biologia molecolare all'archeologia, e su materie così inconsuete
come la progettazione delle macchine per scrivere o il Giappone
feudale.
Per la sua vasta preparazione ed il gran numero di articoli che gli
sono attribuiti, lo studioso inglese Mark Ridley ha avanzato la
scherzosa supposizione che Diamond non sia una singola persona, ma
in realtà “un comitato”.
Se non potete soffrire gli uomini col riporto, non cercate una sua
foto su internet ma limitatevi a leggere i suoi libri!
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