Dancing nord è un libro sui generis.
Non è il romanzo che ha inspirato il quasi omonimo film e non è neanche la
sceneggiatura che ne ha delineato la trama.
E’ invece la curiosa e appassionante vicenda umana di un professore di filosofia
che sostiene la scelta dell’amico regista di girare un film su popoli lontani e
che segue la troupe in terre ghiacciate per raccontare la curiosa storia di una
pellicola tutta italiana (o quasi).
Il film narra le vicende contrastate di un musicista che lascia l’Italia alla
volta del Canada nella speranza di realizzare un concerto rock con una band di
ragazzini Inuit e nella convinzione che le note più delle parole possano
permettere agli uomini di conoscersi e di capirsi.
E così Antonio Rinaldis si ritrova ai confini del mondo, a Umiuijak, nel Nord
Québec, duemila chilometri a nord di Montreal, nella terra ghiacciata degli
Inuit del Canada settentrionale, quelli che vivono ai margini del colonialismo
contemporaneo e della globalizzazione mondiale: impiega circa una settimana per
arrivare a destinazione, complice la cancellazione di voli delle moderne
compagnie aeree, e la conseguente perdita della coincidenza, una lunga e lenta
serie di vicissitudini tra terminal di autobus e stazioni di servizio perse
nell’immensa solitudine canadese, ed una delle feste più importanti del Québec
che fa perdere al nostro improvvisato routard tutte le speranze di trovare un
passaggio per raggiungere il lontanissimo luogo delle riprese del film...
Involontariamente, l’autore compie lo stesso viaggio di Franco, il protagonista
del film Dancing North, e in un momento di massimo sconforto, quasi convinto che
non riuscirà mai nell’impresa, quando si sente solo e perso nelle infinite
distese di tundra, si chiede perché: “Ma perché proprio a me doveva capitare di
diventare il personaggio di una sceneggiatura?”
Appena ho cominciato a leggere il libro, ho pensato che avrei voluto chiamare
l’autore, per conoscerlo e per parlare con lui di quegli Inuit che vorrei tanto
conoscere meglio.
Soprattutto per quella sua stringata biografia: vorrei essere un cercatore di
vissuti, da raccontare! E per quella sua vena ironica: ”Sono un europeo in
difficoltà. Mi porto dietro il mio tempo piccolo e congestionato, ammalato di
precisione e mi ritrovo davanti alla dismisura e alla vaghezza”. E per quel suo
timore lucido e reale: “Non devo dimenticare che sono un occidentale e quindi
pericolo. Sono un colonialista istintuale, capace di conquistare, di sradicare e
bonificare, non altrettanto di ascoltare e comprendere i suoni stranieri... La
conoscenza, per i bianchi, è potere, e si conosce per dominare. Ho paura di
quello che siamo capaci di fare, della violenza che si cela dietro la maschera
della curiosità falsamente disinteressata. In fondo gli Inuit sono una
popolazione a rischio, minacciata di integrazione nell’unico universo possibile
che per noi è soltanto quello bianco.”
Antonio Rinaldis parla degli Inuit, e non solo di loro; parla del viaggio verso
la terra di Nunavik, parla delle difficoltà delle riprese in quel clima rigido e
ventoso, parla dell’isteria artica che assale gli attori protagonisti e della
difficoltà di convivere con l’immensità del grande nord.
Ma parla anche di cose che non si trovano in nessun altro libro: delle emozioni
e delle sensazioni provate conoscendo gli Inuit... ed in questo, il libro è
grandioso! Parla delle opinioni convenzionali che gli occidentali hanno sugli
Inuit: non sono solo nomadi integrati in un mondo dominato dagli stanziali e
vittime di un’assimilazione che li ha frustrati negli istinti più antichi e
profondi; non sono solo cacciatori che hanno appreso dai bianchi la pratica del
commercio (che significa cacciare per vendere, per avere in cambio armi, alcool,
vestiti più caldi), e che hanno così trasformato il loro istinto ancestrale per
la caccia in un’attività regolata, con scadenze e impegni.
Gli Inuit sono anche persone che parlano poco, che di fronte alla verbosità dei
bianchi vanno spesso in crisi, che per unire due punti non tracciano una linea
retta ma una traiettoria curvilinea (“i ragazzi Inuit imparano la matematica
sottovoce, cioè soltanto se la comunicazione è dolce e non violenta.
Gli Inuit se ne stanno in disparte, ad osservare l’invadenza e le certezze dei
bianchi, ma non sembrano molto interessati, neanche incuriositi e continuano a
vivere la loro vita: “non sono interessati al nostro tipo di percezione della
realtà, troppo legata all’idea di soggettività. Preferiscono calarsi nella
natura e ascoltarla, senza avere la pretesa di sentirsi superiori perché più
intelligenti. È l’umiltà di fronte al tutto che noi non possiamo capire, perché
siamo troppo chiusi nella gabbie delle nostre personalità smisurate... La nostra
ansia contrasta con la loro suprema indifferenza”.
Gli Inuit sono sospesi nel tempo e combattono per mantenere un legame tra
passato, presente e futuro, per resistere allo sradicamento dalle loro ataviche
abitudini, per sostenere il pesante confronto con la civiltà dell’uomo bianco,
per contrastare la deriva violenta e suicida che ha loro inflitto la scoperta e
l’uso smodato di alcool e droga.
Lo sguardo dell’autore è particolare, rispettoso e perfino timoroso, il libro è
attraversato dell’anelito di riuscire a comunicare senza dover soggiogare:
”coltivo la speranza, magari ingenua, che questa volta l’uomo bianco non si
presenti come homo tecnologicus, con la pretesa di civilizzare i selvaggi
incolti e primitivi. Attraverso l’arte e il cinema si può forse stabilire un
piano di comunicazione diverso, ludico, al di là delle differenze di storie,
lingue e tradizioni, in cui lavorare insieme sia soprattutto inventare”.
La quarta di copertina richiama una delle immagini più belle del libro: “... poi
ci sono loro, gli Inuit. Così lontani dagli stereotipi a cui siamo abituati.
Soprattutto fisicamente. Sfuggono a ogni classificazione e sembrano senza età.
Ci guardano e sorridono, senza sprecare troppe parole, ed è come se facessero
parte anche loro del silenzio."
La conclusione cui perviene è sorprendente: “forse non c’è soluzione, o forse
c’è, ma è paradossale. Se amiamo gli Inuit, se li vogliamo rispettare,
dimentichiamo che esistono, abbandoniamoli nell’oblio totale e non varchiamo la
soglia del 53° parallelo. Gli Inuit ci hanno ignorato per secoli e non hanno mai
avuto voglia di conoscerci. Per loro il mondo era una distesa ghiacciata,
abbastanza simile ai loro territori. Magari quello che vogliono è continuare a
sentirsi soli sulla terra”.
La curiosità, la solitudine, la lontananza, il silenzio, la diversità: tutto
contribuisce a rendere molto istruttive le considerazioni dell’autore,
altrettanto condivisibili le sue riflessioni, ancora più apprezzabili le sue
conclusioni.
Il libro va letto, per scoprire che ci sono dei “bianchi” che si pongono ancora
delle domande.
Ecco una delle conversazioni tra l’autore e l’insegnante bianco della scuola
locale:
"Voi", punta il dito verso di me, "avete opinioni molto convenzionali sugli
Inuit. Ve li immaginate dentro agli igloo, impellicciati, in mezzo al ghiaccio,
che magari si baciano con la punta del naso. La realtà è un'altra. Il mondo
Inuit è un vulcano in ebollizione, perché l'arrivo del bianco ha cambiato
abitudini e tradizioni millenarie. Parlo dei cambiamenti che sono intervenuti
soprattutto negli ultimi cinquant'anni; da quando il governo ha deciso di
occuparsi direttamente di queste popolazioni e le compagnie commerciali, che
avevano il monopolio dei traffici e delle relazioni con gli Inuit, sono
scomparse.
I bianchi delle Compagnie avevano precisi interessi economici; volevano certe
merci, fossero esse pellicce, o grasso di balena, e gli Inuit potevano
procurargliele. Gli Inuit, d'altra parte, volevano armi, alcool e indumenti.
Altri motivi di incontro non c'erano. È vero che alcuni Inuit decisero di
limitare il tradizionale nomadismo e si stabilirono per alcuni periodi dell'anno
nei postes de traite, ma si trattava di iniziative ancora individuali, che non
avevano modificato radicalmente le loro convinzioni e i modi di vita. In ogni
caso, le relazioni tra Inuit e bianchi erano subordinate alla legge della
domanda e dell'offerta, tant'è che, quando verso l'inizio del secolo il mercato
delle pellicce entrò in crisi, anche le Compagnie limitarono la loro presenza
nel Nord Québec"...
"Devi sapere", insiste, "che è molto difficile parlare degli Inuit, perché, in
un certo senso, è come se non esistesse una cultura Inuit. Ogni villaggio è
differente e ha una sua specificità, anche se ci sono tratti comuni. L'anima
Inuit è ospitale, non competitiva, tollerante, ma, nello stesso tempo,
distaccata, come chiusa in se stessa. Per gli Inuit la comunicazione non ha
assolutamente il valore che ha per noi, Tu per loro sei uno straniero, un
kabloomak, e non ti verranno mai cercare, perché in fondo non credono di avere
bisogno di te”.
Antonio Rinaldis è nato a La Thuile, in Valle d’Aosta, nel marzo 1960.
Appassionato di cinema, ha collaborato a programmi radiofonici e televisivi. Tra
gli inuit è arrivato per seguire nel Québec settentrionale le riprese del film
Dancing North, diretto dall’amico regista Paolo Quaregna per la Dream Film.
Insegna filosofia al Liceo Classico di Olbia.
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