Il libro che Robert Peroni ha scritto con Francesco Casolo non è una
autobiografia ma un viaggio guidato nella vita di un popolo straordinario.
L’incipit del primo capitolo è avvincente: “Dicono che se non si comincia da
bambini, non si impara ad andare in kayak”.
Parla ancora, di kayak, nel corso del suo racconto sugli usi e sulle tradizioni
locali: si tratta, spiega, di qualcosa di molto personale, perché ogni kayak
viene costruito intorno al girovita del cacciatore, in modo che non imbarchi
acqua e permetta a chi lo guida di muoversi più agilmente”. Le traduzioni sono
al solito un po’ approssimative ma l’autore sa di cosa parla.
Ci ritorna al capitolo dieci, nell’introduzione. Racconta cose note:
“Tradizionalmente le madri cucivano il kayak con la pelle di foca su misura per
il cacciatore a cui era destinato. Avere un kayak significava poter sfamare se
stessi e la propria famiglia”. Ma anche cose meno note: “Qui i bambini di due o
tre anni li mettono seduti a terra, riproducono loro intorno la forma del kayak
con dei sassolini ed i piccoli devono dimostrare di saper stare in equilibrio.
Mettono cinque sassi a destra e cinque a sinistra, i bambini si siedono e
iniziano a remare come matti. Per loro è solo un gioco, ma intanto imparano, e
quando avranno dieci anni potranno andare in mare aperto senza avere paura delle
onde”.
L’autore
confessa subito che lui e la Groenlandia “si sono trovati”, che la Groenlandia
lo ha salvato, calmato. Nonostante la solitudine che si respira sul posto, anzi
forse proprio grazie alla solitudine. E’ un sentimento che acquista connotati
differenti rispetto a come la intendiamo noi occidentali: “Non si tratta di non
avere un amico con cui passare del tempo o una compagna, né di ritrovarsi a
partire da soli o non ricevere telefonate. In Groenlandia la solitudine è
assoluta: l’immensità del territorio produce un silenzio assordante e l’uomo è
sovrastato dalla maestosità della natura. E’ una solitudine che può essere tanto
terrificante quanto meravigliosa, perché rende più accorti: le orecchie si
tendono ad ascoltare i rumori, anche i più lievi, e lo sguardo si apre ad ogni
più piccolo dettaglio”.
Peroni è diventato un po’ Inuit, dopo tanti anni vissuti tra loro a Tasiilaq,
nella Groenlandia orientale: “Io penso una cosa: se vuoi veramente sapere di più
di te stesso, devi andare da solo... Prima di creare una vera unione, un uomo
deve lavorare su se stesso, partire e andare, lasciare il mondo per potervi
tornare. Da solo, però, perché la solitudine, quella positiva, è qualcosa che,
nell’abbandono degli altri, ci permette di rientrare nel gruppo come persone
migliori”.
La riflessione si sposta subito sulla paura, un altro sentimento vissuto dagli
Inuit in maniera differente: “Quando Knud Rasmussen, uno dei primi antropologi a
fare ricerca sul campo tra gli Inuit, chiede alla sua guida in che cosa
credesse, questa gli rispose: <<Noi non crediamo, noi abbiamo paura>>”. La paura
degli Inuit non corrisponde alla nostra idea di qualcuno che batte i denti per
lo spavento, ma piuttosto è simile a quello che in italiano chiameremmo ignoto.
Per esorcizzare le proprie paure, gli Inuit ricorrono allo sciamano, cercano con
canti e danze di tacitare i loro timori per ciò che non sanno spiegare,
comprendere e dominare. Lo sciamanesimo non è mai stato abbandonato dagli Inuit,
neanche quando si sono convertiti al cristianesimo: per loro non c’era alcun
motivo per cui Gesù non potesse convivere con le loro divinità.
Gli Inuit sono un popolo che ha conosciuto la paura ma che non ha mai smesso di
aprirsi al mondo, di stupirsi e di impegnarsi a capire una cultura diversa dalla
propria... anche quando gli altri, i bianchi, li hanno costretti ad adottare
abitudini contrarie alla loro cultura. E non solo abitudini religiose.
Uno
dei motivi del recente degrado sociale groenlandese, specie nella piccola
comunità orientale, è stato il divieto imposto dalla comunità internazionale, su
pressione delle organizzazioni ambientaliste ed animaliste, della caccia alla
foca. Il motivo ufficiale, apparentemente valido e condivisibile, era quello di
evitare l’estinzione di questi splendidi mammiferi dagli occhioni enormi: ma gli
Inuit hanno sempre cacciato solo per la sopravvivenza, lo stretto
indispensabile, senza mai intaccare l’equilibrio ecologico della zona. I
pescherecci europei, al contrario, non hanno saputo rispettare quelle stesse
regole ancestrali e quando si è reso necessario intervenire per tutelare gli
animali polari lo si è fatto in maniera superficiale e miope. Imporre anche agli
Inuit le stesse regole di divieto assoluto di caccia alla foca (e di vendita
delle pelli) valide per gli occidentali ha decretato la fine di tradizioni
millenarie, la decadenza di un popolo mite ed isolato dal mondo, la crescita del
disagio individuale e collettivo. La caccia costituiva l’unica fonte di
sostentamento per intere famiglie Inuit, gli uomini che non possono più cacciare
non possono più neanche sfamare i propri figli, trasmettere ai giovani le
proprie conoscenze, dare un senso alle proprie giornate.
“La foca era tutto per loro. Dava cibo, pelli per i kayak e vestiti e grasso da
bruciare d’inverno. Se non c’erano più foche in un fiordo, bastava spostarsi in
quello successivo e in quello dopo ancora: era sempre stata questa la loro
disposizione d’animo. All’improvviso, però, qualcuno aveva deciso che le foche
non dovevano più essere toccate. Tutti li disprezzavano e loro non sapevano come
reagire”.
Attualmente la foca può essere cacciata dagli Inuit, ma non se ne può vendere la
carne o la pelle: un paradosso evidente ignorato dalla comunità internazionale e
dalla stessa Unione Europea. Peroni sul tema si accalora: “Mi capita spesso di
partecipare a conferenze su questo tema e ogni volta vengo accusato di difendere
tradizioni barbare o di non avere alcuna sensibilità ecologica... In Groenlandia
consumiamo probabilmente un decimo rispetto a qualunque popolo occidentale e
teniamo in vita una terra in cui nessuno ha mai voluto abitare”.
I sussidi stanziati dal governo danese non hanno risolto il problema, forse lo
hanno acuito, insieme alla diffusione dell’alcool, importato col tabacco dai
primi bianchi sbarcati alla fine del Settecento. I primi suicidi, specie tra i
giovani, hanno reso drammaticamente evidente l’errore.
Il WWF, dopo un importante e lodevole campagna di difesa degli animali del Polo
iniziata alla fine degli anni Settanta, si rese presto conto delle conseguenze
disastrose del divieto della caccia alla foca per i popoli della Groenlandia,
riconobbe il proprio errore e si scusò pubblicamente, dichiarando che gli Inuit
non costituivano alcuna minaccia per la conservazione della specie.
Greenpeace, invece, si comportò diversamente. All’epoca era una piccola
organizzazione con qualche filiale in vari stati. I dirigenti intuirono che la
campagna per le foche funzionava: i cacciatori, ormai, non approfittavano più
del fatto che le madri di questi mammiferi lasciavano branchi di piccoli
indifesi sul ghiaccio per andare a caccia. La loro pelliccia bianca era molto
richiesta: li avvicinavano con le barche, li catturavano con le reti e poi li
uccidevano a bastonate per non rovinare il manto, spesso li scuoiavano sul posto
per aumentare il valore delle pelli. Queste pratiche erano state abbandonate da
tempo, il divieto aveva funzionato, ma Greenpeace non ha cambiato rotta: “i
teneri musi dei cuccioli erano perfetti per sensibilizzare l’opinione pubblica e
raccogliere consensi. Gli Inuit, al contrario, erano pochi e incapaci di
spiegare le proprie ragioni. In una parola, erano trascurabili”.
L’autore racconta anche un episodio recente molto brutto ma poco noto: un
giovane cacciatore che con la sua barca si era spinto nel fiordo a caccia di
foche e che è stato circondato dai gommoni di Greenpeace, arrivati qualche
giorno prima sulla nave dell’organizzazione, quella enorme con un arcobaleno
sulla fiancata. Hanno cominciato a girargli intorno minacciosamente e presto si
è aggiunto anche un elicottero: il ragazzo è tornato a casa traumatizzato, si è
rivolto alla polizia locale, poi a Peroni per organizzare una manifestazione
pacifica: “Eravamo Davide contro Golia. Noi avevamo un filmato amatoriale e loro
dicevano che non c’era stata alcuna contestazione e che non avevano aggredito il
pescatore. Naturalmente, sui giornali è finita solo la loro versione, Nessuno
sembrava interessato a conoscere il nostro punto di vista”.
“Ritengo che Greenpeace dovrebbe chiedere scusa, o perlomeno cercare una
soluzione, organizzare un convegno per capire come aiutare il popolo che sta
contribuendo a far estinguere”.
“Dove
il vento grida più forte” non è un libro sulla Groenlandia, non ci sono
descrizioni di paesaggi innevati, di iceberg e di ghiacciai. Ma è un libro sugli
Inuit, sulla loro cultura, sul loro spirito. Scritto da un occidentale, un
italiano altoatesino per la precisione, trapiantato da anni in mezzo ai ghiacci:
uno sguardo lucido, severo, coerente. Peroni non da la soluzione, forse sa che
non c’è più soluzione, ma ci stimola a riflettere, a pensare, a conoscere.
Scoprire quanto ci sia di vero nei racconti che ancora si fanno degli “eschimesi
che vivono negli igloo” e quanto invece sia cambiata la loro esistenza: vivono
in case di legno, riscaldate e con l’acqua corrente, vanno a scuola ed imparano
l’inglese, hanno sostituito l’arpione col fucile ma quando uccidono una foca o
una balena sono ancora malvisti e considerati dei barbari...
Peroni svela l’animo profondo degli Inuit, il loro essere miti e fieri al tempo
stesso.
Durante la lettura accattivante e veloce di questo libretto ricco di aneddoti e
racconti di prima mano, ho trovato conferma alla mia intuizione sul motivo che
ha spinto di Inuit a migrare sempre più verso l’estremo nord. Originari della
Mongolia, quaranta o cinquantamila anni fa, gli antenati degli Inuit vengono
spinti lontano dai boschi e dai pascoli, nella tundra prima e poi nell’artico,
passano lo stretto di Bering, raggiungono l’isola di Ellesmere e arrivano a Etah,
nella Groenlandia nordoccidentale: “qualcuno, invece, va a nord di Etah e,
toccato il punto più settentrionale della Groenlandia, ridiscende verso sud per
andare a insediarsi sulla costa orientale. Sono questi gli avi dei miei amici di
Tasiilaq”.
Ma perché sono scappati? Perché non si sono ribellati? Per la dolcezza,
l’incapacità di difendersi, di attaccare i vicini, di scatenare una guerra per
la difesa del territorio. Piuttosto scelgono di allontanarsi, meglio, sono
costretti a farlo. Accettano comunque di vivere in condizioni dure e quasi
proibitive, ma non di combattere! Si spostano verso nord, sempre più a nord,
lontani dalle pianure, dagli alberi, dagli animali... e dagli altri uomini.
Emigrano e si adattano: imparano a sopportare il freddo, la carenza di cibo, la
totale assenza di legname. Non hanno terra da coltivare ma solo ghiaccio da
calpestare. Diventano nomadi e cacciatori, e di un solo animale fanno la loro
preda, la foca.
Insomma, hanno dovuto scegliere il freddo perché hanno voluto rifiutare la
guerra...
Robert
Peroni è stato scalatore ed esploratore del team “No-Limits”. Altoatesino di
origini, a quarant’anni ha lasciato tutto e si è trasferito in Groenlandia,
sulla costa orientale, a Tasiilaq: ha fondato la “Casa Rossa”, una residenza
turistica ecosostenibile che dà lavoro agli Inuit in difficoltà.
Francesco Casolo, milanese, appassionato di viaggi e natura, dopo aver
trascorso diversi anni all’estero è attualmente docente di Storia del cinema e
da tempo impegnato in campo editoriale.
Dalla seconda di copertina si legge che quando Robert Peroni, trent’anni fa,
arriva in Groenlandia per battere l’ennesimo record, si sente sperduto: una
famiglia in Italia e una professione, quella di esploratore, di cui non capisce
più il senso.
A ridare una direzione alla sua vita sono gli Inuit, vero nome degli
“eschimesi”: nonostante i bianchi da anni impongano divieti che impediscono loro
di vivere dignitosamente, lo accolgono come un amico, perché ogni uomo è sole se
stesso e la solidarietà è un dovere. Affascinato da questa cultura, Robert si
trasferisce nel centro più grosso della costa orientale, un paese di duemila
abitanti, isolato nove mesi l’anno, e ne abbraccia la lingua, gli usi, le regole
non scritte. Come il rifiuto di lamentarsi: la fame, il freddo, le privazioni
sono accettate con il sorriso sulle labbra, perché soffrire è parte
dell’esistenza. Da loro impara ad ascoltare le storie che porta il vento, la
bellezza di vivere nel presente e la poesia nascosta nello sciamanesimo.
“Dove il vento grida più forte” racconta l’incontro con un popolo straordinario,
che ha come unica arma la dolcezza, e con una terra ostile e meravigliosa, in
cui la natura è madre e matrigna, dispensatrice di vita e di morte. Robert
invita noi “bianchi”, che ci riteniamo depositari di una civiltà superiore ma
non siamo capaci neppure di sorprenderci, a guardare quel mondo con occhi nuovi.
In fondo, chi sono i veri primitivi: noi, che in trent’anni abbiamo distrutto
una civiltà millenaria, o gli Inuit, che in quattromila anni non hanno mai fatto
una guerra?
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