Il linguaggio di questo volume è comprensibilmente datato ma ugualmente carico
di fascino.
“Se oggi gli studiosi affermano che l’eschimese è intelligente, buono,
affezionato, eroico; se dicono che la sua lingua è ricca ed armoniosa e non
conosce parole che suonano offesa; se riportano che le sue leggende e i suoi
miti e le sue canzoni, pur nei limiti che un ambiente naturale ostile impone,
non hanno nulla da invidiare a quelle degli altri popoli, bisogna credere perché
è la verità”.
La
spontaneità dei racconti Inuit riguarda tanto la Natura quanto il
soprannaturale, la magia, il mistero; i racconti che parlano di animali sono i
più delicati, quelli che riportano le storie di caccia sono i più crudi, quelli
che invece di riferiscono alle leggende storiche sono i più ricchi di
particolari, fatti e vicissitudini dei cacciatori alle prese con orsi, tempeste
di neve o lontani “abitanti dell’interno”.
La religiosità rimane per gli Inuit un fatto personale, “non innalzano preghiere
a nessun dio… ammettono senza difficoltà che nulla conoscono e che forse è
sbagliato ciò in cui credono”; il Grande Corvo ha creato la Terra, lo sciamano
conosce l’arte di entrare in comunicazione con gli spiriti, la Luna (Aningat) è
considerata uno spirito maschile ed il Sole uno spirito femminile apportatore di
bel tempo (Malina), tutti credono nella grande Dea del mare...
“L’eschimese ha una grande forza di carattere, è paziente nelle prove, semplice
nella vita, intelligente e volitivo. La sua morale, nei tempi passati, era
basata su questi tre principi: non ammazzare, non rubare, non adirarsi”...
nonostante le loro estreme condizioni di vita, gli Inuit non hanno mai
conosciuto la guerra e le sue leggende non risuonano di canti di battaglia, di
cavalli scalpitanti o di spade sguainate, ma solo di morti, morti di fame, morti
di freddo, morti sparsi un po’ dovunque nella tundra o sulla banchisa... avevano
capito immediatamente che il nemico era la Natura, non gli uomini... la Natura
da combattere, per sopravvivere, non certo da battere, perché troppo potente, e
sempre da rispettare, perché genera la vita...
Le donne mutate in pietra, le donne sul ghiaccio alla deriva, le donne che si
vendicano come orsi, il corvo che sposa le oche, il lamento del fringuello delle
nevi, la lepre che cantava, l’origine della nebbia, un uomo vende un coltello ai
lupi, un richiamo per i trichechi, parole magiche...
Questi e tanti altri i titoli che introducono ai racconti Inuit del volume,
alcuni misteriosi ed enigmatici, come “Agpalerssuarssuk che nascose il suo
tamburo quando il suo amico morì”, altri disarmanti e semplici, come “Perché la
gente cessò di usare arco e frecce”, che vale forse la pena di riportare: ”una
volta, nei tempi passati, quando gli antenati usavano ancora punte di frecce
fatte di pietra, durante la caccia alle renne accadde che uno ingannò il suo
compagno e lo colpì, facendo credere che stava per colpire una renna. Ma quando
ebbe colpito il suo compagno, non desiderò più avere una freccia e da allora gli
antenati non usarono più le frecce”.
Non manca il kayak, naturalmente, protagonista di alcuni racconti magici e
fantastici, ma anche realistici e drammatici: “Bisogna stare ben attenti nel
pescare dal ghiaccio se non si ha il kayak, perché all’apparire dell’acqua lungo
la riva, il ghiaccio comincia a muoversi avanti e indietro secondo il vento ed è
facile che poi prenda il largo”... “ Alcune persone che remavano nei kayak videro
un grande branco di renne... Allora gli uomini cominciarono ad inseguirle,
guidando le renne davanti a loro nell’acqua, cominciarono ad arpionarle e ne
catturarono molte”... “Quando venne l’estate, raccolsero ossa di trichechi e
costruirono dei kayak. E avendo dei kayak, cominciarono a cacciare delle balene
bianche”... “Il marito di Suakak era un abitante dell’interno e non era andato mai
in kayak”... “Spinse a tutto forza il kayak ed era appena passato che i due monti
di ghiaccio di nuovo si urtarono schiacciando la punta dell’imbarcazione”...
“Quando sarò morto, metti in acqua il kayak fissandolo alla riva; mettici dentro
la mia pagaia, le lance e le lenze, ciascuna al suo posto; mettimi indosso la
camicia impermeabile (!) e mettimi dentro al kayak legando la camicia alla
imboccatura, come mi hai visto fare quando vado in mare”.
Nel dizionarietto finale, Zavatti scrive del kayak. “la ben nota imbarcazione da
caccia usata dagli eschimesi. E’ lunga tre metri e larga appena 60 centimetri
(?) ed è costruita con pelli di foca cucite, ben distese, su un sottile e
robusto telaio di legno o di osso. Nel mezzo della parte superiore è praticato
un foro circolare, entro cui prende posto l’uomo che è stretto alla vita da una
specie di pancera di morbide pelli di foca, cucita alle pelli che costituiscono
lo scafo. In questo modo l’imbarcazione è inaffondabile”... chissà poi se le
dimensioni del kayak erano davvero quelle riportate dall’illustre esploratore,
forse troppo corto e troppo largo...
Casualità
ha voluto, che durante la lettura del volume di Zavatti sui racconti Inuit, come
era avvenuto nel caso delle fiabe e leggende di Norman Howard, mi sono imbattuta
in una bella mostra allestita presso la Biblioteca Civica del Comune di Lissone...
scoprendo una volta di più incantevoli immagini ispirate agli Inuit e al
straordinario stile di vita!
Qualche anno dopo la pubblicazione del primo volume, Silvio Zavatti ha inteso
dare alle stampe un secondo volume sui miti e sulle leggende Inuit, intitolato
“Il corvo bianco”, scegliendo di rifarsi già dal titolo alla antica tradizione
iperborea che vuole il Corvo come grande creatore della Vita, talora bianco
talora nero, ma sempre spirito originale ed originario.
Zavatti esordisce nell’introduzione precisando con apprezzabile onestà di aver
già scritto sulla mitologia Inui con tale abbondanza di particolari che
riprendere il tema avrebbe voluto dire ripetere le vecchie idee: “preferisco
riportare, con qualche variante, buona parte dell’introduzione del mio vecchio
libro già esaurito e aggiungere qualcosa alla fine in omaggio ai lavori più
recenti e alle indagini più approfondite”.
Infatti, inserisce una importante bibliografia, alcune illustrazioni tratte dal
testo del famoso studioso H.Rink “Tales and traditions of the Eskimo” e delle
chiare note introduttive di commento ad ognuno dei racconti selezionati e
pubblicati in questo nuovo volume.
Unica
differenza sostanziale con il precedente volume su “I grandi fatti della terra e
del cielo” risiede nella emozionata prefazione a firma dell’autore, che
volentieri riportiamo perché aiuta a comprendere quando forte fosse
l’attaccamento dello studioso per il popolo Inuit, oltre l’interesse scientifico
e le finalità divulgative del suo lavoro: “Ho preparato questo volume nella
primavera-estate del 1981 mentre il pensiero ritornava agli Inuit lontani, agli
amici fedeli come nessuno al mondo, a quei magnifici, umili signori della
tundra, delle nevi e dei ghiacci.
Nella serenità della mia casa, all’ombra degli alberi che la circondano e nel
silenzio di certe ore, ritornavo con lo spirito ai villaggi dell’Artide e della
Groenlandia, ritornavo alla commozione degli incontri e all’esaltazione di certi
colloqui e risentivo tutta la nostalgia per quella gente meravigliosa.
La nostalgia è in questo volume e nel commento dei miti, ma è soprattutto nelle
narrazioni che gli autori ignoti ed i narratori più moderni hanno fatto portando
alla ribalta i racconti della loro gente. Ci sono miti di molti gruppi di Inuit
e molti della Groenlandia: questi ultimi li ho ripresi da un mio precedente
volume ormai esaurito e li ho fatti precedere da un commento illustrativo.
La nota bibliografica è largamente spiegata e abbraccia soltanto le opere da me
consultate: naturalmente, nella Biblioteca Polare da me diretta ve ne sono un
gran numero e ben lo sanno coloro che lavorano intorno alla mitologia Inuit.
Agli amici lontani tutto l’affetto di questo italiano ammalato di amore per essi
e per la loro amicizia”.
Silvio Zavatti è stato geografo, etnologo ed esploratore delle regioni
polari.
Dopo avere curato un volume di Poesia Eschimese (Roma, Edizioni OMI 1966) ed
avere scritto un Dizionarietto Italiano-Groenlandese (Istituto Geografico Polare
– 1963), Silvio Zavatti ha voluto raccogliere in un testo unico le leggende che
lui stesso aveva sentito raccontare dalle donne nelle lunghe notti artiche.
A soli venti anni era diventato capitano di lungo corso su di una nave inglese e
per diletto iniziò a scrivere dei suoi viaggi, raccontando il sistema di vita
dei popoli visitati e aggiungendo la descrizione della loro civiltà, che
appariva molto meno primitiva di quanto si pensasse. Pur essendo antropologo
autodidatta, la sua esperienza e l’amore per le genti del Nord fecero si che
riuscisse, tramite le sue numerose pubblicazioni, a far conoscere ed apprezzare
queste popolazioni. Ha fondato nel 1944 a Fermo l'Istituto Geografico Polare
(www.museopolare.it), ha raccolto il frutto della sua attività scientifica nel
Museo Polare Etnografico e ha dato vita alla stampa della rivista “Il Polo”
ancora oggi in pubblicazione per la divulgazione delle ricerche polari italiane.
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