TATIYAK - letture

I grandi fatti della terra e del cielo
Miti e leggende dei popoli iperborei
Scelti, tradotti e annotati da Silvio Zavatti - Ed. Guida 1974

Scheda del 16 aprile 2009 a cura di Tatiana Cappucci

Il linguaggio di questo volume è comprensibilmente datato ma ugualmente carico di fascino.
“Se oggi gli studiosi affermano che l’eschimese è intelligente, buono, affezionato, eroico; se dicono che la sua lingua è ricca ed armoniosa e non conosce parole che suonano offesa; se riportano che le sue leggende e i suoi miti e le sue canzoni, pur nei limiti che un ambiente naturale ostile impone, non hanno nulla da invidiare a quelle degli altri popoli, bisogna credere perché è la verità”.

La spontaneità dei racconti Inuit riguarda tanto la Natura quanto il soprannaturale, la magia, il mistero; i racconti che parlano di animali sono i più delicati, quelli che riportano le storie di caccia sono i più crudi, quelli che invece di riferiscono alle leggende storiche sono i più ricchi di particolari, fatti e vicissitudini dei cacciatori alle prese con orsi, tempeste di neve o lontani “abitanti dell’interno”.
La religiosità rimane per gli Inuit un fatto personale, “non innalzano preghiere a nessun dio… ammettono senza difficoltà che nulla conoscono e che forse è sbagliato ciò in cui credono”; il Grande Corvo ha creato la Terra, lo sciamano conosce l’arte di entrare in comunicazione con gli spiriti, la Luna (Aningat) è considerata uno spirito maschile ed il Sole uno spirito femminile apportatore di bel tempo (Malina), tutti credono nella grande Dea del mare...
“L’eschimese ha una grande forza di carattere, è paziente nelle prove, semplice nella vita, intelligente e volitivo. La sua morale, nei tempi passati, era basata su questi tre principi: non ammazzare, non rubare, non adirarsi”... nonostante le loro estreme condizioni di vita, gli Inuit non hanno mai conosciuto la guerra e le sue leggende non risuonano di canti di battaglia, di cavalli scalpitanti o di spade sguainate, ma solo di morti, morti di fame, morti di freddo, morti sparsi un po’ dovunque nella tundra o sulla banchisa... avevano capito immediatamente che il nemico era la Natura, non gli uomini... la Natura da combattere, per sopravvivere, non certo da battere, perché troppo potente, e sempre da rispettare, perché genera la vita...
Le donne mutate in pietra, le donne sul ghiaccio alla deriva, le donne che si vendicano come orsi, il corvo che sposa le oche, il lamento del fringuello delle nevi, la lepre che cantava, l’origine della nebbia, un uomo vende un coltello ai lupi, un richiamo per i trichechi, parole magiche...
Questi e tanti altri i titoli che introducono ai racconti Inuit del volume, alcuni misteriosi ed enigmatici, come “Agpalerssuarssuk che nascose il suo tamburo quando il suo amico morì”, altri disarmanti e semplici, come “Perché la gente cessò di usare arco e frecce”, che vale forse la pena di riportare: ”una volta, nei tempi passati, quando gli antenati usavano ancora punte di frecce fatte di pietra, durante la caccia alle renne accadde che uno ingannò il suo compagno e lo colpì, facendo credere che stava per colpire una renna. Ma quando ebbe colpito il suo compagno, non desiderò più avere una freccia e da allora gli antenati non usarono più le frecce”.

Non manca il kayak, naturalmente, protagonista di alcuni racconti magici e fantastici, ma anche realistici e drammatici: “Bisogna stare ben attenti nel pescare dal ghiaccio se non si ha il kayak, perché all’apparire dell’acqua lungo la riva, il ghiaccio comincia a muoversi avanti e indietro secondo il vento ed è facile che poi prenda il largo”... “ Alcune persone che remavano nei kayak videro un grande branco di renne... Allora gli uomini cominciarono ad inseguirle, guidando le renne davanti a loro nell’acqua, cominciarono ad arpionarle e ne catturarono molte”... “Quando venne l’estate, raccolsero ossa di trichechi e costruirono dei kayak. E avendo dei kayak, cominciarono a cacciare delle balene bianche”... “Il marito di Suakak era un abitante dell’interno e non era andato mai in kayak”... “Spinse a tutto forza il kayak ed era appena passato che i due monti di ghiaccio di nuovo si urtarono schiacciando la punta dell’imbarcazione”... “Quando sarò morto, metti in acqua il kayak fissandolo alla riva; mettici dentro la mia pagaia, le lance e le lenze, ciascuna al suo posto; mettimi indosso la camicia impermeabile (!) e mettimi dentro al kayak legando la camicia alla imboccatura, come mi hai visto fare quando vado in mare”.
Nel dizionarietto finale, Zavatti scrive del kayak. “la ben nota imbarcazione da caccia usata dagli eschimesi. E’ lunga tre metri e larga appena 60 centimetri (?) ed è costruita con pelli di foca cucite, ben distese, su un sottile e robusto telaio di legno o di osso. Nel mezzo della parte superiore è praticato un foro circolare, entro cui prende posto l’uomo che è stretto alla vita da una specie di pancera di morbide pelli di foca, cucita alle pelli che costituiscono lo scafo. In questo modo l’imbarcazione è inaffondabile”... chissà poi se le dimensioni del kayak erano davvero quelle riportate dall’illustre esploratore, forse troppo corto e troppo largo...

Casualità ha voluto, che durante la lettura del volume di Zavatti sui racconti Inuit, come era avvenuto nel caso delle fiabe e leggende di Norman Howard, mi sono imbattuta in una bella mostra allestita presso la Biblioteca Civica del Comune di Lissone... scoprendo una volta di più incantevoli immagini ispirate agli Inuit e al straordinario stile di vita!
Qualche anno dopo la pubblicazione del primo volume, Silvio Zavatti ha inteso dare alle stampe un secondo volume sui miti e sulle leggende Inuit, intitolato “Il corvo bianco”, scegliendo di rifarsi già dal titolo alla antica tradizione iperborea che vuole il Corvo come grande creatore della Vita, talora bianco talora nero, ma sempre spirito originale ed originario.
Zavatti esordisce nell’introduzione precisando con apprezzabile onestà di aver già scritto sulla mitologia Inui con tale abbondanza di particolari che riprendere il tema avrebbe voluto dire ripetere le vecchie idee: “preferisco riportare, con qualche variante, buona parte dell’introduzione del mio vecchio libro già esaurito e aggiungere qualcosa alla fine in omaggio ai lavori più recenti e alle indagini più approfondite”.
Infatti, inserisce una importante bibliografia, alcune illustrazioni tratte dal testo del famoso studioso H.Rink “Tales and traditions of the Eskimo” e delle chiare note introduttive di commento ad ognuno dei racconti selezionati e pubblicati in questo nuovo volume.

Unica differenza sostanziale con il precedente volume su “I grandi fatti della terra e del cielo” risiede nella emozionata prefazione a firma dell’autore, che volentieri riportiamo perché aiuta a comprendere quando forte fosse l’attaccamento dello studioso per il popolo Inuit, oltre l’interesse scientifico e le finalità divulgative del suo lavoro: “Ho preparato questo volume nella primavera-estate del 1981 mentre il pensiero ritornava agli Inuit lontani, agli amici fedeli come nessuno al mondo, a quei magnifici, umili signori della tundra, delle nevi e dei ghiacci.
Nella serenità della mia casa, all’ombra degli alberi che la circondano e nel silenzio di certe ore, ritornavo con lo spirito ai villaggi dell’Artide e della Groenlandia, ritornavo alla commozione degli incontri e all’esaltazione di certi colloqui e risentivo tutta la nostalgia per quella gente meravigliosa.
La nostalgia è in questo volume e nel commento dei miti, ma è soprattutto nelle narrazioni che gli autori ignoti ed i narratori più moderni hanno fatto portando alla ribalta i racconti della loro gente. Ci sono miti di molti gruppi di Inuit e molti della Groenlandia: questi ultimi li ho ripresi da un mio precedente volume ormai esaurito e li ho fatti precedere da un commento illustrativo.
La nota bibliografica è largamente spiegata e abbraccia soltanto le opere da me consultate: naturalmente, nella Biblioteca Polare da me diretta ve ne sono un gran numero e ben lo sanno coloro che lavorano intorno alla mitologia Inuit.
Agli amici lontani tutto l’affetto di questo italiano ammalato di amore per essi e per la loro amicizia”.

Silvio Zavatti è stato geografo, etnologo ed esploratore delle regioni polari.
Dopo avere curato un volume di Poesia Eschimese (Roma, Edizioni OMI 1966) ed avere scritto un Dizionarietto Italiano-Groenlandese (Istituto Geografico Polare – 1963), Silvio Zavatti ha voluto raccogliere in un testo unico le leggende che lui stesso aveva sentito raccontare dalle donne nelle lunghe notti artiche.
A soli venti anni era diventato capitano di lungo corso su di una nave inglese e per diletto iniziò a scrivere dei suoi viaggi, raccontando il sistema di vita dei popoli visitati e aggiungendo la descrizione della loro civiltà, che appariva molto meno primitiva di quanto si pensasse. Pur essendo antropologo autodidatta, la sua esperienza e l’amore per le genti del Nord fecero si che riuscisse, tramite le sue numerose pubblicazioni, a far conoscere ed apprezzare queste popolazioni. Ha fondato nel 1944 a Fermo l'Istituto Geografico Polare (www.museopolare.it), ha raccolto il frutto della sua attività scientifica nel Museo Polare Etnografico e ha dato vita alla stampa della rivista “Il Polo” ancora oggi in pubblicazione per la divulgazione delle ricerche polari italiane.
 

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