Non
un libro ma un fumetto.
La storia vera di Minik, Inuit sradicato, raccontata con disegni ed acquarelli.
Un lavoro mirabile, sapiente, riuscitissimo.
“Estremo nord della Groenlandia, 1897.
L'esploratore americano Robert Peary fallisce l'ennesimo tentativo di piantare
la bandiera del suo paese al Polo Nord, nonostante l'aiuto degli Inuit. Ma non è
possibile rientrare a mani vuote dalla missione e decide dunque di portare in
patria dei souvenirs “viventi”, veri “selvaggi polari” in carne e ossa. Il più
piccolo di loro, Minik, è solo un bambino”.
Questa la presentazione della quarta di copertina.
Ma l'album è molto più di questo: è una storia dolce-amara che dosa con
equilibrio teneri sorrisi e momenti di vera commozione, un fumetto che si fa
leggere veloce e leggero, un racconto esaltato dall'uso magistrale
dell'acquarello, che trova la sua massima espressione nella rappresentazione dei
paesaggi dell’estremo nord.
L'autrice ha saputo adattare con semplicità ed efficacia le tavole alla
narrazione, che scorre via veloce sulla traccia della storia personale di Minik:
si passa così dal pittoricismo dei campi lunghi groenlandesi alle buffe vignette
a tinte forti per raccontare le leggende Inuit, dai ritagli di giornali d'epoca
a personaggi che sembrano usciti da manifesti pubblicitari, dalle sequenze che
fanno il verso alle prime strisce di fumetti alle pagine piene di sogni ed
incubi del piccolo Minik.
Come
gli altri Inuit, anche Minik pensa che Puili – il diminutivo di Peary - sia un
po’ strano: quell’uomo alto e magro dai lunghi baffi rossi che ha perso le dita
dei piedi per il freddo e che ogni volta che riparte per il suo mondo imbarca
sul “grande kayak” un meteorite dell’artico. Gli Inuit, come il padre di Minik,
pensano che sia del tutto inutile tentare di raggiungere il punto più lontano
della terra solo per il gusto di piantarci una bandiera e poi tornare indietro.
Non capiscono neanche perché sia solo l’assistente di colore, un
riconoscibilissimo Matthew Henson, a sforzarsi di parlare la loro lingua... Ma
sono affascinati dalle storie di Puili, anche se sono molto buffe: nel paese di
Peary brilla il sole tutti i giorni e fa talmente caldo che non serve indossare
le pellicce e le famiglie abitano una sopra l’altra in case ben riscaldate.
Giungere
a New York sul finire dell'Ottocento doveva essere travolgente: un europeo che
vi arrivava in nave dopo giorni di navigazione si trovava catapultato in un
mondo nuovo tra luci, statue, ponti, grattacieli, vapori, masse di straccioni e
carrozze eleganti.
Meraviglia e terrore insieme.
Per Minik, la fine del viaggio dalla lontana Groenlandia deve essere stata al
tempo stesso liberatoria e spaventosa. I cinque Inuit imbarcati sulla nave di
Peary vengono studiati al Museo di Storia Naturale di New York ed esposti alle
conferenze itineranti organizzate dall'esploratore con l'intento di raccogliere
nuovi fondi per le sue future spedizioni.
Minik è l’unico dei cinque a sopravvivere alle nuove abitudini alimentari e alle
differenti condizioni meteorologiche e all’influenza: viene adottato dalla
famiglia Wallace.
Si adatta alla vita moderna, impara ad andare in bicicletta, parla la lingua
dell’uomo bianco e ne frequenta anche la scuola. Ma un giorno scopre che nella
tomba del padre è stato sepolto un tronco d’albero e le sue ossa sono state
esposte nelle teche del museo insieme a quelle di elefanti e dinosauri. Il senso
di spaesamento si fa incontenibile e cerca in tutti i modi di tornare alla sua
terra.
Dopo
varie peripezie, che coinvolgono anche Peary, il Museo e persino il Presidente
degli Stati Uniti d’America, il piccolo Minik riesce a tornare in Groenlandia
dopo quasi 10 anni.
Ritorna proprio quando Peary riusce finalmente a conquistare il Polo Nord.
Emblematico l’incontro tra i due proposto dall’autrice-disegnatrice, proprio
quando Minik sbarca per raggiungere il suo popolo e Peary sale sulla scialuppa
per tornare in patria: in una straordinaria ed efficace inversione dei ruoli, il
ragazzo è vestito all’occidentale, con camicia, giacca e bombetta mentre
l’esploratore indossa i tradizionali abiti in pelle degli Inuit.
L’incontro delle due civiltà non sembra aver prodotto buoni frutti...
Minik
non ritrova nessuno della sua famiglia ma viene accolto dalla sua gente come uno
di loro.
Anche se stenta ad ambientarsi: offre il burro di arachidi come dolce, racconta
di uno “strano riduttore di distanze” con una specie d’imbuto per parlare con la
gente di altri villaggi (il telefono) e taglia la carne di foca senza rispettare
la tradizione di versare prima nella bocca dell’animale un po’ di acqua dolce
(nel caso avesse sete nel lungo cammino verso le profondità del mare, un modo
poetico per ingraziarsi lo spirito dell’animale e per propiziarsi altra caccia).
Minik Wallace è spaesato anche in Groenlandia.
Inuit tra gli americani ed americano tra gli Inuit, racchiude nel suo nome una
doppia identità che si fa presto insopportabile.
“Mi piacerebbe trovare un posto dove nessun mi conosce e dal quale non
aspettarmi niente”...
Il
volume si chiude con un breve scritto di Delphine Deloget, regista del
documentario “Qui se souvient de Minik?”. La postfazione offre una chiave di
lettura storica che lascia l’amaro in bocca: il villaggio di Minik, Uummannaq,
non esiste più: è stato distrutto nel 1953 dagli Stati Uniti per installarci una
base militare in piena guerra fredda.
“I vecchi ricordano ancora che ebbero solo quattro giorni per prepararsi ad
abbandonare le loro case, il territorio, i morti, e spostarsi 150 chilometri più
a nord”.
Nel 1990 alcune tribù indiane cominciarono a reclamare la restituzione delle
ossa conservate nei musei statunitensi e nel 1993, in seguito alle pressioni
delle autorità groenlandesi sul Museo di Storia Naturale di New York, il
villaggio di Qaanaaq ricevette con un elicottero i feretri contenenti i resti
dei “quattro Inuit di New York”.
Dopo quasi cento anni Qisuk, Nuktaq, Attangana e Aviaq riposano nel piccolo
cimitero di Qaanaaq.
Sulla loro tomba sono iscritte queste parole: “Nunamiut uteriut” – “Sono
tornati a casa”.
Chloé Cruchaudaet è una giovane disegnatrice francese nata a Lione nel 1976.
I
suoi genitori gestivano una libreria di seconda mano e sin dall'infanzia
divorava libri e fumetti diventando, come lei stessa ammette, una bulimica della
lettura. Laureata in architettura, dopo gli studi di arte grafica segue la
scuola di Gobelins in cinema d'animazione. Partecipa a diverse collettive di
fumetti ma è anche appassionata di studi sociologici e storici. Con il suo primo
album su Minik ha vinto il prestigioso premio René Goscinny nel 2008 mentre
l'ultimo capitolo della sua trilogia Ida è stato selezionato per il 37° Festival
del Fumetto di Angouleme del 2010.
Il fumetto sulla storia vera di Minik “Groenlandia Manhattan” si chiude con una
nutrita bibliografia, con una serie di siti internet per i più curiosi e con la
pregevole riproposizione delle tavole originali di alcune fotografie storiche
gentilmente concesse dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti e
risalenti al 1901-1909, anno in cui Peary sostiene – tra mille polemiche - di
avere raggiunto il Polo Nord.
L’autrice ha un blog pieno di disegni che grondano emozioni:
cruchaudet.blogspot.com
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