Non uno ma due volumi, non tascabili ma di grande
formato.
Che meritano qualche precisazione sin dalla presentazione.
Il primo riguarda i giochi, i movimenti e le tecniche degli
Ammassalimiut, ed è stato pubblicato nel 1989, corredato con schede
e disegni di Paul-Emile Victor e con testi scelti da Joelle
Robert-Lamblin. Il secondo volume riguarda invece le pratiche, i
riti e le credenze degli Ammassalimiut ed è stato pubblicato qualche
anno dopo, nel 1993.
Può una civiltà essere definita dall'animale che le assicura la
sopravvivenza?
Fino al 1930 gli Inuit di Ammassalik non hanno vissuto che per e
grazie alla foca: una piccola popolazione di cacciatori nomadi che
avevano vissuto nell'isolamento, tra i ghiacci dell'Inlandsis e
quelli della banchisa, sulla costa orientale della Groenlandia alla
latitudine del circolo polare.
Sono rimasti sconosciuti ed isolati fino al 1884, quando al termine
di una lunga e difficile spedizione in umiak l'ufficiale di
marina danese Gustav Holm incontra per la prima volta questa etnia.
La loro esistenza era nota solo agli abitanti del sud-ovest della
Groenlandia ed erano proprio loro a chiamarli “Ammassalimiut”, vale
a dire le genti del luogo dove si trovano gli “ammassat”, una
piccola specie di merluzzo chiamato cappellano.
Paul-Emile
Victor vive presso di loro nel corso di due inverni, tra il 1934-35
ed il 1936-37, raccoglie dati, informazioni, testimonianze;
coadiuvato dall'amico medico Robert Gessain riempie interi quaderni
di appunti e disegni, avviando per primo le ricerche sul campo del
popolo delle foche.
Gli Ammassalimiut erano allora in numero di 413, disseminati su
circa 500 chilometri di costa.
Quando l'esploratore francese torna ad Ammassalik nel 1951 constata
che ci sono già una strada e due camion e la maggior parte delle
case in pietra e zolle d'erba sono state sostituite da case in legno
in stile danese. Quando ritorna per una qualche ora durante una
trasferta aerea nel 1964 rileva che i cambiamenti intervenuti sono
ben più profondi: la lingua è più simile a quella della Groenlandia
occidentale, le case sono tutte in legno d'importazione,
surriscaldate e dipinte di verde, rosso e giallo, le slitte che non
hanno ormai più niente in comune con quelle che aveva studiato,
disegnato e lui stesso progettato.
Negli anni Novanta scriveva che le cose si erano ulteriormente
deteriorate, l'evoluzione ed occidentalizzazione accelerate: “ci
sono più funzionari che cacciatori, c'è la televisione ed il video,
il telefono internazionale, le auto, i taxi, le motoslitte ed
orribili case popolari a più piani... Gli Ammassalimiut sono
diventati groenlandesi orientali che non conosco più. Ma li ho
conosciuti bene e sono quelli di cui parlo, al presente. Del resto,
cos'è l'etnologia se non lo studio dell'evoluzione della civiltà
negli anni?”
Dalla testimonianza sul campo (1934-1937) alla pubblicazione del
lavoro (1989-1993) trascorrono più di cinquant'anni anni ma mai come
per gli Ammassalimiut il tempo ha corso veloce: nel 1884, mentre i
loro conterranei della Groenlandia occidentale assorbivano la
colonizzazione europea da più di un secolo e mezzo, dopo l'arrivo
del pastore norvegese Hans Egede nel 1721, gli est-groenlandesi di
Ammassalik erano, invece, una sorte di sopravvissuti della
preistoria alle soglie del XX secolo!
Gli appunti raccolti da Paul-Emile Victor sono andati perduti per
lunghi anni, durante i quali lo studioso si è dedicato ad altre
spedizioni polari; sono poi stati ritrovati, classificati e
commentati da Joelle Robert-Lamblin e mostrano tutta la loro
freschezza ed autenticità anche cinquant'anni dopo la loro
redazione. I disegni ritraggono con grazia e precisione la vita
quotidiana del popolo delle foche, i loro movimenti, le loro
abitudini, i loro giochi, disegnati e descritti con tocco sicuro
perché il celebre esploratore è stato anche un grande disegnatore e
ha saputo e voluto trasmettere la gioia di avere vissuto a lungo
insieme a quelle genti per cui nutriva un profondo rispetto.
Il
piccolo pesce che ha dato il nome al popolo non era che un elemento
primordiale per la sussistenza degli Ammassalimiut: questi nomadi
sono stati prima di tutto dei cacciatori di mammiferi marini,
essenzialmente balene, foche, narvali, beluga e trichechi, anche se
nella Groenlandia orientale il mare è ricoperto di una spessa
banchisa per la maggior parte dell'anno e non libera facilmente le
sue ricchezze. “Come non ci si può riempire d'ammirazione di fronte
ad una tale sfida lanciata alla natura ostile dall'uomo che, grazie
al suo genio, ha saputo adattarsi a quelle rare risorse e vivere in
totale autarchia nel corso di numerosi secoli”.
Grazie alle loro tecniche di spostamento, gli Ammassalimiut sono
stati in grado di spostarsi lungo oltre 1000 chilometri di costa,
tra i 61°50 di latitudine di Puisortok ed il 68° di Kangerlussuak;
eccezion fatta per i due periodi dell’anno in cui gli spostamenti
sono impossibili, all’inizio dell’inverno quando il ghiaccio deve
ancora formarsi e al principio della primavera quando comincia a
sciogliersi, per il resto dell’anno il popolo delle foche è stato
capace di adattarsi a tutte le situazioni imposte dal clima e dal
luogo, semplicemente sfruttando tre mezzi di trasporto, slitta,
umiak e kayak, tutti e tre flessibili, maneggevoli e leggeri.
Anche combinandoli tra loro: il kayak poteva essere trasportato con
la slitta fino al confine dei ghiacci per poi iniziare una battuta
di caccia, oppure la slitta veniva issata sull’umiak per traversare
fiumi o bracci di mare...
Il primo volume è ricco di informazioni storiche,
sociali ed ambientali sulla comunità degli Ammassalimiut, sulla
storia della regione prima del 1884 e negli anni immediatamente
successivi, sul clima e sulle stagioni, sulle risorse naturali, sul
modo di vita delle famiglie dei cacciatori, sui ritmi quotidiani e
persino sulle modalità di divisione delle prede: il dente d’avorio
del narvalo spetta al cacciatore (nannitteq) che ha ucciso
l’animale, la pelle dell’orso a chi lo ha per primo avvistato (anche
un bambino dell’accampamento!), mentre al primo cacciatore che tocca
una foca o un beluga spetta il quarto posteriore destro, al secondo
il quarto posteriore sinistro, al terzo l’arto anteriore destro, al
quarto l’arto anteriore sinistro, al quinto l’appendice caudale e
anche chi ha solo assistito alla caccia ha diritto al grasso esterno
e ai muscoli addominali. La divisione viene eseguita dalle donne,
dalla moglie del cacciatore oppure dalla madre se non è ancora
sposato: ai genitori del cacciatore spettano le parti dello sterno
della foca, ai genitori della sposa invece la colonna vertebrale, e
la distribuzione segue poi regole ferree di parentela collaterale ed
allargata, che interessa anche i bambini che hanno assunto il nome
dei defunti. Al cacciatore solitamente non resta che la testa
dell’animale, una parte del grasso e le viscere, perché anche la
pelle diviene di proprietà della sposa o della madre, che si
occupano poi di lavorarle per realizzarne indumenti o rivestimenti
per le imbarcazioni.
I
vari capitoli sono dedicati nell’ordine alle tecniche di spostamento
(in slitta, kayak ed umiak), alla gestualità quotidiana nella
caccia, nel lavoro o nella comunicazione, alla musica col tamburo,
ai giochi (di mimica con le mani, di corde e cordicelle, di ossa,
equilibrio e prove di forza), e si conclude con un lungo e
dettagliato capitolo sulla fine dell'isolamento culturale e
geografico in cui vengono tracciate con la sapienza dell'antropologo
la persistenza delle migrazioni estive contro la sparizione del
nomadismo invernale, la diversificazione delle attività di caccia,
pesca ed artigianato, la scoperta dell'assistenza sociale e del
lavoro salariato, quello che non richiede alcuna qualifica a uomini
e donne di casa (kippaq) che si recano presso le abitazioni
dei funzionari danesi e vestono i panni dei primi collaboratori
domestici dell'era moderna.
Il secondo volume è invece tutto incentrato su leggende e poemi, su
canti tradizionali e formule magiche, su riti e tabù che scandivano
la vita della comunità degli Ammassalimiut. La caccia, la nascita,
la morte, tutto è pretesto per un rituale spirituale che gli
sciamani praticano e tramandano oralmente e che gli studiosi tentano
di dipanare per comprendere meglio la vita religiosa e culturale del
popolo artico. Un gioiello di 420 pagine, di molti disegni a mano
libera, di ritratti di sciamani e di fotografie della comunità,
presentata attraverso un articolato albero genealogico che bene
chiarisce i rapporti tra i singoli e le famiglie e tra loro ed i
ricercatori sul campo.
Entrambi
i volumi sono corredati di carte geografiche dettagliate della
regione, di glossari pieni di parole in uso nel passato e di una
ricchissima bibliografia.
Ci vuole del tempo per leggere tutto, ogni pagina è piena di
indicazioni chiare e precise sulla tecnica di pulizia delle pelli di
foca, sulle acconciature dei capelli delle donne, sulla preparazione
dei giochi della corda, le posizioni da assumere con mani, braccia e
gambe.
Nel gioco del trapezio (acināratārnè), per esempio, una corda
composta con 4-5 tendini di foca viene tesa dentro casa tra i muri
laterali: gli uomini, raramente le donne, si sfidano ad eseguire
movimenti acrobatici intorno alla corda stessa, rimanendo sospesi
con le mani ravvicinate, incrociate, o disposte in modi via via più
difficili e coreografici.
Nella
presentazione dell'umiak i numerosi disegni accompagnano il lettore
nelle varie fasi della costruzione, dall'assemblaggio delle travi di
legno alla sistemazione delle pelli di foca a prua e poppa, dalle
dimensioni delle pale alle tecniche di navigazione, con la
disposizione precisa dei membri dell'equipaggio: al timone il
proprietario dell'imbarcazione, oppure l'anziano più esperto, ai
remi le donne della famiglia ed i ragazzi ancora senza kayak, mentre
la moglie del proprietario dell'umiak solitamente non rema, salvo
che scelga di farlo per piacere o per riscaldarsi, ma mai in maniera
sistematica e continuativa. A sottolineare l'importanza
dell'imbarcazione, una nota chiarisce che l'umiak non viene mai
prestato, se non in caso di reciproco scambio di doni.
Il popolo delle foche eccelleva nella costruzione di barche e
slitte, nonostante la carenza di legname: i lavori di falegnameria
venivano eseguiti con i pochi tronchi trasportati dal mare che dalla
Siberia raggiungevano le coste orientali della Groenlandia. La
penuria di materiale aveva acuito l'ingegno.
La slitta tradizionale degli Ammassalimiut ha rappresentato l'unico
mezzo di trasporto fino all'introduzione degli sci in legno e più
tardi delle slitte a motore. La struttura in legno e tiranti di
tendini di foca ha subìto delle modificazioni proprio a partire dai
primi contatti con gli europei e lo stesso Victor ha apportato delle
varianti alle slitte utilizzate nelle sue esplorazioni lungo costa,
tanto che nel tempo sono diventate più grandi, più stabili e più
maneggevoli, munite di freni per ridurre la velocità del tiro di
cani o di barre longitudinali e non più trasversali per risultare al
tempo stesso più flessibili e più resistenti alle ondulazioni del
terreno.
Al
kayak (caqit) è naturalmente riservato un lungo
capitolo: “niente è più personale del kayak di Ammassalik, poiché
questa imbarcazione monoposto è costruita sulle misure proprie del
suo utilizzatore, non solo in relazione alla sua statura, ma secondo
la larghezza delle cosce e la lunghezza delle gambe. L'uomo, grazie ad una retroversione delle ginocchia,
deve scivolare
con le gambe
all'interno del kayak, esattamente come una mano infila un guanto
“très ajusté”. Ed una volta dentro, si protegge dall'acqua con una
sorta di tunica impermeabile che sistema intorno al busto e al
pozzetto in modo che “le kayakeur fait véritablement corps avec son
embarcation”.
Idealmente, un cacciatore possiede due kayak di misure diverse, per
rispondere a bisogni diversi: un kayak corto, per essere trasportato
facilmente sulla slitta e per navigare in un mare ancora ingombro di
ghiacci, ed un kayak lungo, più stabile e veloce per navigare in un
mare finalmente libero da ostacoli. E' sempre abbastanza leggero da
poter essere trasportato da un uomo solo: nei trasporti più lunghi
il cacciatore carica il kayak sulla testa, infilando la testa nel pozzetto
e poggiando il kayak sulle spalle, ma più di frequente lo appoggiato alle anche infilando
le braccia nel pozzetto.
Il kayak viene sempre attrezzato per la caccia e tutti gli accessori
tradizionali sono disposti sul ponte in un ordine rigoroso e
funzionale: l'arpione, il suo propulsore e la lunga cima legata al
galleggiante, la lancia, il fucile, il supporto per la cima e lo
schermo bianco per mimetizzarsi meglio nell'ambiente circostante. Di
ogni accessorio vengono fornite misure, disegni e modalità di
costruzione ed è tale la dovizia di particolari che viene voglia di
mettersi subito al lavoro per costruirsi un supporto per la pagaia (nutakit):
una semplice assicella dotata di una doppia coppia di piccoli pioli
in osso, pensata per incastrarsi sotto le cime fissate sul ponte
anteriore e per fare della pagaia un perfetto bilanciere... ancora
oggi utilizziamo lo stesso sistema per mantenere l'equilibrio,
provare per credere!
La
costruzione del kayak, come dell'umiak, è un lavoro collettivo che
impegna l'intera famiglia, uomini e donne, perché dalla sua buona
riuscita dipende la vita del cacciatore. Viene restaurato ogni due
anni, gli uomini lavorano il legno, le donne le pelli e alla
copertura partecipano tutti: gli uomini intervengono per tendere le
pelli, per passare i tendini sul ponte, per fissare il pozzetto,
sistemare le punte di avorio per la protezione delle estremità. Le
donne scelgono le pelli con estrema attenzione, le tagliano secondo
regole prestabiliti e le cuciono per adattarle allo scafo,
assecondano i desideri dei cacciatori fissando pelli bianche e nere
in maniera non solo funzionale ma anche estetica. Grande cura viene
riservata alla costruzione del kayak non solo per renderlo
impermeabile ma anche per abbellirlo con ornamenti in osso ed
avorio: gli ornamenti non rispondono solo ad esigenze artistiche,
pure sentite e valorizzate, ma anche a bisogni spirituali di
protezione del cacciatore col richiamo di numi tutelati o di spiriti
naturali.
Dalle testimonianza raccolte tra 22 cacciatori, vengono riportate le
misure esatte dell'imbarcazione, che può variare in lunghezza dai
5,15 ai 5,90 metri, in larghezza dai 45 ai 50 centimetri, con un
pozzetto di appena 33 o 39 centimetri, e con precise distanze tra il
pozzetto, la prua e la poppa, tra i longheroni interni e gli slanci
delle estremità.
L'equilibrio del kayak è estremamente precario e tutti i movimenti
del corpo devono essere misurati, tanto che l'addestramento comincia
tra gli 8 ed i 10 anni sotto lo sguardo attento del padre: il
giovane cacciatore impara col tempo a pagaiare, a lanciare
l'arpione, a sparare col fucile, a navigare e ad eseguire l'eskimo
per recuperare la posizione iniziale. E' così che, partendo dalla
necessità vitale di evitare o superare una situazione pericolosa,
l'eskimo è presto diventato uno sport di eccellenza praticato dagli
Ammassalimiut con estrema destrezza e fantasia, tanto da inventare
diversi modi per perdere e recuperare l'equilibrio in kayak.
Protetto dall'anorak impermeabile (qajarcit), ben
chiuso intorno al viso, ai polsi e alla vita, gli esperti di eskimo
si sfidano per gioco e per necessità, lanciandosi in acqua distesi a
prua o a poppa ed escono con l'aiuto della pagaia, del norsaq
o delle sole mani.
Nel corso del tempo il kayak ha perso la sua funzione e la sua
peculiarità, sostituito dalle barche a motore introdotte nella
regione a partire dagli anni Sessanta. Nonostante la rinomata
abilità dei cacciatori Ammassalimiut, gli incidenti in kayak
costituivano all'inizio del secolo scorso la causa più frequente di
mortalità maschile e non stupisce affatto che i genitori abbiano
smesso di insegnare ai figli questa ancestrale tecnica di caccia,
mantenuta ormai soltanto come materia scolastica facoltativa.
Paul-Emil
Victor, pur non essendo un canoista, si è cimentato nella
presentazione schematica e sistematica di ben 20 diversi tipi di
eskimo, dal più semplice con la pagaia allungata al più complesso
con le mani incrociate: considerando che ogni figura ha la sua
variante a destra e a sinistra e che alcune figura hanno anche le
ulteriori varianti di prua e di poppa, i cacciatori di Ammassalik
conoscevano 48 tipi diversi di eskimo. Victor aveva fotografato e
disegnato tutte le posizioni e tutte le fasi dell'eskimo ma quando a
distanza di cinquant'anni ha cercato quelle sue vecchie note gli
oltre cento scatti sono risultati introvabili e così l'opera è
corredata quasi esclusivamente di disegni. Colpisce la capacità
dimostrata dall'esploratore di focalizzare l'attenzione esattamente
sul punto critico del movimento o sul momento importante per la
riuscita dell'eskimo. “Gli Ammassalimiut sono per me i migliori
“eskimoteurs” del mondo. Anche se è una tecnica pressoché
dimenticata, alcuni cacciatori di Ammassalik sono ancora in grado di
eseguire le due figure fondamentali del naqatatirtuŋu e del
patertituŋu”, vale a dire rispettivamente l'eskimo a pala
lunga di prua e di poppa. Spiega Victor che il movimento
fondamentale per l'eskimo è quello eseguito con la pagaia: “il
movimento consiste nel fare percorrere alla pala attiva della pagaia
un cerchio che termina all'indietro, il kayaker si ritrova in acqua
disteso sul ponte posteriore... poi si distende in avanti e comincia
il movimento di rotazione della pagaia, sotto l'acqua, finché non si
trova progressivamente raddrizzato, il viso rivolto al cielo, ancora
completamente disteso sul ponte posteriore, e nella posizione
finale, per recuperare l'equilibrio finale, si sposta in avanti con
un movimento rapido appoggiandosi alla pagaia”. Non è esattamente
l'eskimo stilizzato dal regolamento attualmente adottato dal
comitato del Campionato Internazionale di Eskimo che si disputa ogni
anno in Groenlandia, in una città sempre diversa per raggiungere
tutte le comunità e ravvivare l'interesse per l'antica tradizione
popolare, ma è sicuramente una delle più dettagliate e chiare
spiegazioni della manovra esistente in letteratura.
Paul-Emile
Victor è stato esploratore, etnologo, ingegnere, disegnatore,
artista e pioniere dell'ecologia. Nato a Ginevra nel 1907, è morto
nel 1995 a Bora-Bora, dove si era da tempo trasferito e dove veniva
spesso definito come “un eschimese nel pacifico”. Il suo sito
ufficiale è ricco di informazioni sul suo conto:
http://www.paulemilevictor.fr
Joelle Robert-Lamblin è stata la sua preziosa collaboratrice
nella edizione di queste due opere colossali ed è una delle più
competenti studiose delle popolazione artiche, avendo effettuato
diverse spedizioni presso le comunità groenlandesi ed aleutine.
Interessante, tra gli altri, il suo studio sul kayak aleutino, il
mitico “baidarka”:
http://www.arctickayaks.com/PDF/Robert-Lamblin1980/robert-lamblin.htm
Il loro sodalizio viene spiegato a dovere nell'introduzione del
primo volume e merita di essere richiamato per esteso perché ci è
sembrato il risultato di una collaborazione umana oltre che
scientifica volta a valorizzare il lavoro e le capacità di entrambi.
Paul-Emile Victor ha trascorso due inverni ad Ammassalik, negli
inverni del 1934-35 e del 1936-37. Dopo avere svernato in
Groenlandia, però, l'esploratore si è dedicato alle spedizioni
polari francesi in Canada, Alaska, Islanda e persino in Antartico;
per lunghi anni non si è più potuto dedicare all'etnologia, sua
prima materia di studio e molti dei suoi appunti sono andati
perduti. Nel 1989 mancava all'appello ancora un terzo dei suoi
documenti originali, che tra schede etnografiche, note, disegni,
“journaux de terrain, ”testi raccolti sotto dettatura o scritti
direttamente dagli informatori Ammassalimiut, riempivano“deux
grandes valises et pèse environ 40Kg”, come spiega bene
nell'introduzione utilizzando parametri tutt'altro che scientifici.
Una parte delle sue note etnografiche sulla Groenlandia orientale
sono state utilizzate per redigere alcune pubblicazioni scientifiche
dal suo collega di spedizione, il medico francese Robert Gessain,
divenuto dapprima vice-direttore poi direttore del Musée de l'Homme
e fondatore del Centre de Recherches Anthropologiques dello stesso
Museo. Ma non sarebbe stato possibile recuperare nulla di quella
enorme mole di carte, dopo oltre cinquant'anni, senza la
collaborazione dinamica ed erudita della coautrice dell'opera,
Joelle Robert-Lamblin, una ricercatrice che sin dal 1962 ha lavorato
proprio con Robert Gessain al Musée de l'Homme. Molti studiosi
insistevano da tempo affinché Paul-Emile Victor recuperasse i suoi
scritti, ma quando ha avviato il lavoro si è sentito scoraggiato
dall'enorme mole di materiale ed allora Joelle è “riuscita nel
miracolo” di classificarli, riunirli e valutarli, gettando le basi
per il lavoro comune lavoro nei due volumi che compongono la
raccolta. Ai primi due, è seguito un terzo volume, pubblicato sulle
riviste scientifiche danesi Meddelemser om Gronland e composto dalla
maggior parte dei canti e dei poemi raccolti sul campo (800 in
totale), trascritti in lingua est-groenlandese e traduzione danese e
francese: la redazione dei testi ha presentato diverse difficoltà
perché, tra le altre cose, la lingua degli Ammassalimiut del 1936 è
una lingua arcaica parzialmente dimenticata ed in parte evolutasi
sotto l'influenza esterna della lingua groenlandesi occidentale. Ai
tre volumi, tutti curati da Joelle Robert-Lamblin, sono seguiti poi
altri articoli pubblicati sulle riviste etnologiche specializzate.
Insomma, una gran quantità di appunti e documenti che ora
arricchiscono questi due volumi e che aiutano a far luce su una
civiltà dal glorioso passato che sembra orami destinata ad un lento
declino.
Il Centro Polare Paul-Emile Victor (http://www.centrepev.com)
è ospitato in una curiosa costruzione ai piedi delle Alpi francesi,
a Prémanon, il paese di origine dell'esploratore, a due passi da
casa: non escludiamo di farci un salo prima o poi...
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