Alvah Simon decide di trascorrere a bordo della sua barca a vela un lungo
inverno buio e solitario tra i ghiacci impenetrabili dell’artico, in una piccola
baia dell’Isola di Bylot, oltre l’Isola di Baffin, ed inizia il racconto della
sua grande avventura con una conclusione disarmante: “Ho tentato in tutti i modi
di abituarmi all’oscurità e alla solitudine; per un po’ ci sono persino
riuscito, ma alla fine è stato inutile. La luce e le risate sono i carburanti
della spirito umano”.
Ecco, questo è lo spirito che pervade l’intero romanzo: peripezie e riflessioni,
introspezioni e scoperte, paura e conquiste… tutto il libro è intriso
d’avventura! E di dettagli curiosi sul popolo Inuit e sul creatore di tutte le
cose: il Grande Corvo!
Alvah scopre subito il kayak: “nell’arte del design nautico dei vari
paesi avevo scoperto elementi che rispecchiavano la cultura locale, e mai avevo
trovato una linea tanto semplice ed elegante quanto quella del kayak… con pelli
e pochi ossi i primi Inuit avevano creato un’imbarcazione sobria e, nel
contempo, leggera, rapida, silenziosa, inaffondabile, che garantiva loro
l’accesso alla risorsa più preziosa della vita nordica, i mammiferi marini… un
barca fatta di parti animali per cacciare animali rispecchia un ambiente in cui
la biodiversità è molto scarsa... ancora oggi, in quelle acque gelide, gli
uomini guidano kayak di pelle o tessuto tesi su telai di legno; assicurate al
ponte di prua, vi sono le sacche d’aria ricavate dallo stomaco delle foche e
legate ad arpioni con la punta d’osso di balena; come i loro padri e i loro
nonni, gli Inuit siedono pazientemente in silenzio, il tempo scandito dalle
gocce che cadono dallo loro pagaie a doppia pala, in attesa che emerga la loro
preda...”
Ed impara presto ad amare gli Inuit e ad ammirare le loro abitudini: “sanno
essere un popolo freddo e duro quanto il loro territorio, ma anche gentili e
amorevoli, sorridenti e delicati, nel modo effimero della loro terra… conoscono
il collante che tiene insieme una comunità e il loro amore e la loro indulgenza
verso i figli sono leggendari”.
Tra le righe della sua avventura, tra racconti emozionati di incontri
ravvicinati con foche, trichechi, volpi, buoi muschiati, girifalchi ed orsi
polari, tra narrazioni concitate di burrasche, mareggiate, iceberg alla deriva e
navigazioni estreme, tra riflessioni amare e profonde sulla vita, la morte,
l’amore, la fortuna ed il soprannaturale, l’autore parla molto degli Inuit, in
maniera attenta, rispettosa ed affettuosa.
Parla degli abiti morbidi e caldi (“calzano stivali di pelle di foca, indossano
pantaloni d’orso e lunghi parka guarniti di pelliccia di lupo o di ghiottone…
camminano con l’andatura strascicata di chi conosce bene la superficie scivolosa
del proprio mondo“), del cibo grasso ma nutriente (“tra gli Inuit le malattie
cardiovascolari sono quasi sconosciute, in quanto gli oli dei mammiferi marini e
dei pesci d’acqua fredda contengono molti acidi grassi insaturi omega-3”), delle
abitazioni fredde ma estremamente funzionali (“pur possedendo una conoscenza
intuitiva dei termoclini e delle correnti, gli antichi Inuit riscaldavano le
loro abitazioni di ghiaccio con una sola lampada alimentata con grasso di
balena, ventilandole in modo sicuro...”), dei cani da slitta addomesticati ma
profondamente selvatici (“un uomo viene giudicato in base ai cani che guida… gli
Inuit ammirano e incoraggiano quel ningaq (spirito combattente) sapendo che, una
volta imbrigliato, troverà sfogo nella volontà del cane di tirare le slitte
oltre i limiti naturali”), dei costumi sessuali apparentemente disinibiti (“i
mariti Inuit ridevano del misterioso kabloonah - l’uomo bianco che barattava i
favori sessuali delle giovani e sorridenti Inuit con strumenti per la caccia - e
dicevano: prima, lui ha il coltello, e io ho la moglie; dopo, io ho la moglie, e
il coltello!”), della curiosità per il gatto di bordo, Halifax (“in un porto
invitammo a bordo un uomo e sua figlia. La piccola era affascinata da Halifax e
persino dopo averla coccolata per un po’ domandò ”Papa, è vera?”), della fama di
luoghi sconosciuti ed irraggiungibili (“su carte geografiche e mappamondi i
cartografi scrivono, per ragioni di spazio, solo i grandi centri mondiali:
Parigi, New York, Mosca... ed Etah. Etah? E’ un ammasso di niente nel cuore del
nulla, ma è scritta in grassetto su ogni atlante. Non vi è anima viva, ma il
luogo nel quale gli ufficiali inglesi Ross e Parry incontrarono il primo
“eschimese polare” nel 1818 rimane inspiegabilmente impresso nella memoria
dell’Occidente”), dell’invadenza di quell’Occidente per gli Inuit ancora molto
lontano (“individui la cui mente ragiona in termini circolari ora vivono in case
quadrate”), della curiosità per le loro capacità di sopravvivenza nell’Artico
(“quanti membri vi sono in media in una famiglia Inuit? Un padre, una madre, due
figli, e un antropologo!”), della storia antica e moderna di quelle terre
ghiacciate: da Erik il Rosso (l’ autore del più famoso caso di pubblicità
fraudolenta perché aveva chiamato la terra verde ad est “Terra dei Ghiacci”,
l’Islanda, e la terra ghiacciata ad ovest “Terra Verde”, la Groenlandia) al
Nunavut recente (istituito nel 1999 per sancire l’autonomia amministrativa dalla
Danimarca anche se la Groenlandia non è mai stata invasa né occupata da
eserciti).
L’autore racconta anche le abitudini, le curiosità e le sorprendenti capacità di
adattamento degli animali artici: i caribù che si cibano di muschio e che sono
stati minacciati dalla nube di Chernobyl (gli Inuit che prediligono il caribù
hanno rivelato livelli di radioattività pericolosamente alti); i trichechi
solidali con gli esemplari malati o feriti; i cani da slitta scelti in una
stessa cucciolata per avere la madre come capo muta; le oche delle nevi che
emettono grida in volo per incoraggiare il capo stormo; il bruco peloso
dell’orso che impiega ben 14 anni per diventare farfalla e per poi librarsi
nella primavera artica per sole due settimane; il girifalco che depone 2-3 uova
all’anno e che rischia l’estinzione...
L'intestazione dei capitoli del libro scandisce il ritmo della narrazione,
insieme ai ritmi della natura: Camden, Maine, giugno 1994, tredici ore di luce…
Baia di Melville, agosto 1994, venti ore di luce... Tay Bay, novembre 1994, zero
ore di luce… e così via fino alla felice conclusione dell’avventura, segnata da
eventi imprevisti ed imprevedibili che metteranno a dura prova il
protagonista...
Alvah aveva letto le disavventure di tanti altri esploratori e cercava di trarre
insegnamento dalle loro esperienze: quelli che imitavano i “primitivi” uomini
polari
per non congelare, quelli che offrivano loro cibi conditi con troppo sale per
scoraggiare le loro visite di cortesia e conservare così le preziose scorte;
quelli che adottavano i loro stessi metodi per attraversare il deserto di
ghiaccio e riuscire a sopravvivere.
Ma nonostante tutto commette degli errori grossolani che rischiano di
compromettere il viaggio: scaglia un libro la cui lettura era stata deludente
fuori dal sacco a pelo ed infrange l’unica lampada di riserva; rimane bloccato
nella cabina perché durante i suoi sonni invernali ogni giorno più lunghi il
ghiaccio si infiltra e sigilla ogni apertura; perde le scorte di ghiaccio di
acqua dolce contaminate dall’acqua salata e allora costruisce un rudimentale
igloo per cercare di proteggere le nuove scorte; rincorre nel buio il vaso da
notte sospinto dal vento polare lontano dalla barca e per ritrovare la strada di
casa deve tastare le sue impronte prima che vengano sommerse dalla neve; non si
accorge che la gattina sta lentamente congelando, le spezza un orecchio nel
tentativo maldestro di riscaldarla e poi glielo sistema mentre è ancora
anestetizzata dal freddo; quando ormai pensa di essere in punto di morte si
cosparge la pancia di miele, per indurre la gatta ad associare il suo ventre al
cibo, nella remota speranza che almeno la fida compagna di viaggio possa
sopravvivere; capisce in ritardo che la combinazione tra la scarsa areazione
della cabina ed il quotidiano utilizzo del riscaldatore a fiamma lo stava
lentamente intossicando e risente a lungo dei sintomi: cecità, nausea,
depressione, paranoia, palpitazioni, emicranie...
Ma ogni volta, recupera il lume della ragione in tempo per riemergere dal buio
della follia e per sopravvivere alle dure leggi dell’Artico!
A bordo di una barca a vela con lo scafo in acciaio, con provviste sufficienti
per due anni, attrezzature di ogni tipo, la gatta Halifax come unica compagnia,
Alvah Simon esplora da solo per cinque mesi il mondo meraviglioso e
ossessionante degli iceberg, della tundra e dei fiordi, alla scoperta della
propria anima, arrivando a conquistare la più grande delle onorificenze quando
un Inuit gli stringe la mano e gli dice :”saresti un buon Inuk”.
Alvah Simon è sempre stato un viaggiatore, un velista. Quarto di nove
figli, comincia sin da ragazzo una lenta migrazione verso ovest, lasciando la
natia New York per spingersi sino a Key West, salpando da lì con una barca a
vela per circumnavigare il globo terracqueo... dopo 13 anni di peregrinazioni,
conosce una splendida ragazza dai capelli biondi, Diana White, che diventerà sua
moglie e con la quale condividerà molte altre avventure... quando finalmente
sbarcano in Florida, dopo avere effettuato una circumnavigazione completa
intorno al mondo, sperano di realizzare il desiderio di Diana di avere una casa
accogliente ed un giardino fiorito, ma Alvah rimane affascinato da una vecchia
fotografia di Knud Rasmussen e Peter Freuchen e decide di seguire le loro tacce:
“Li definiscono esploratori, ma io conoscevo quegli sguardi. Erano cercatori, il
che è molto diverso”.
Nel 1992 Alvah sceglie così di coronare il suo sogno e di raggiungere la sua
“Ultima Thule” in compagnia della moglie... i due si documentano e si preparano
per due anni, vendono la loro vecchia barca, ne comprano una nuova con lo scafo
in acciaio, il Roger Hanry protagonista del romanzo, e finalmente partono per
affrontare l’odissea verso la terra degli Inuit descritta nel romanzo “A nord
verso la lunga notte”... fanno una scelta controcorrente e non cercano una
sponsorizzazione, perché vogliono “rispettare i ritmi naturali, senza date o
scadenze commerciali”... pur di realizzare quella “avventura profondamente
personale” accettano i lavori più disparati: operatore nei servizi sociali,
conducente di macchine pesanti in un silos per cereali, maestro in corsi di
paracadutismo, operaio addetto a scortecciare tronchi, venditore di opali,
installatore di tubi sottomarini, addetto nei cantieri navali, scrittore... mentre
organizzavano il viaggio, Diana trova un lavoro remunerativo: vendere biglietti
sulla nave che porta i turisti a vedere i delfini al largo della Florida e
rispondere pazientemente a domande quali “a che ora parte il giro di
mezzogiorno?”... Qualunque cosa pur di viaggiare!
Quando finalmente raggiungono Tay Bay, la loro dimora per l’intero inverno,
Diana deve rientrare in Nuova Zelanda perché riceve la notizia inaspettata della
malattia terminale del padre; viene recuperata da un elicottero, spedito laggiù
dopo un complicato ponte radio con una stazione situata a 500 km ad ovest ed
aperta solo da giugno ai primi di ottobre... potrà fare ritorno alla sua “casa”,
così l’ha sempre definita e considerata, solo dopo 5 mesi e comincia anche lei
ad apprezzare le bellezze e a temere le insidie del Grande Nord: rischia di
affogare tra i ghiacci proprio quando cominciano a sciogliersi e a liberare la
barca dalla loro morsa.
All’arrivo della primavera artica, i due vengono raggiunti dal fratello di Alvah,
un, esperto sciatore che aveva pensato di coprire a piedi, una slitta trainata
con gli sci, la distanza che separava la barca dal più vicino villaggio abitato
(oltre 100 miglia marine): ne percorre esattamente quattro, viene bloccato da
una bufera di neve, soffre di un principio di congelamento a mani e piedi e deve
rinunciare all’impresa... raggiungerà il fratello a bordo di una moto slitta, per
trascorrere un mese di ferie andando alla scoperta dei ghiacciai che coronano Tay Bay... aveva risposto piccato ad Alvah che lo metteva in guardia sui grandi
pericoli dell’artico con un messaggio laconico: “non è giusto che tutto il
divertimento sia tuo”!
Quello a Tay Bay non sarà l’ultimo viaggio dei coniugi Simon e i due vivono
ancora a bordo della loro barca.
Per quella e altre imprese nautiche, i Simon hanno ricevuto nel 1997 il
“Cruising World Award for Outstanding Seamanship” ed il libro di Alvah ha vinto
il premio “International Boating Writers Contest” nel 1996. La coppia ha
partecipato spesso a trasmissioni televisive e radiofoniche ed è stata sovente
intervistata dalla stampo. I coniugi Simon sono sempre in viaggio ed ancora oggi
raccontano le loro peripezie dai quattro angoli del mondo con moderne tecnologie
informatiche (vedi Alvah Simon’s blog sul sito
forums.cruisingworld.com)
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