TATIYAK - letture

Il mio passato eschimese
(Min eskimoiske fortid)
di Georg Qùpersiman a cura di Otto Sandgreen - Ed.Guanda - 1999

Scheda del 18 gennaio 2009 a cura di Tatiana Cappucci

"Il mio passato eschimese" è il racconto in prima persona della vita dello sciamano Georg Qùpersiman, che ha affidato in vecchiaia le proprie memorie al pastore protestante Otto Sandgreen, che le ha trascritte in un resoconto fedele, suggestivo e coinvolgente.
Nella premessa, il pastore spiega che "Il mio passato eschimese: memorie di uno sciamano della Groenlandia" è il titolo che ha scelto per il racconto che il cacciatore di foche e sciamano Geor Qùpersiman gli fece della sua vita fino al 1915, anno in cui fu battezzato e venne iniziato ad una concezione cristiana dell’esistenza. Ad onor del vero, precisa il pastore, la traduzione letterale avrebbe dovuto essere "Quando Dio mi era ignoto" o, in forma più corretta, "Quando ero pagano", ma ha tuttavia preferito cambiarlo “per mettere in evidenza che si tratta di una descrizione della vita in un universo eschimese originario”.
Il pastore è animato da un’ansia tutta cristiana di conversione religiosa e tutto il racconto risente di una criticabile concezione eurocentrica; sente il bisogno di precisare, infatti, che è arrivato alla conclusione “che queste persone credono fermamente, senza un’ombra di dubbio, a cose per noi singolari, soprannaturali e inverosimili”, dimenticando forse che anche la religione cristiana ha imposto dogmi tutt’altro che credibili. E conclude che “non è possibile cambiare di colpo gli antichi usi e costumi, profondamente radicati nella gente”, lasciandoci nell’illusione che la colonizzazione del popolo Inuit sia stata meno brutale che altrove e che la cristianizzazione di quei popoli lontani sia stata più rispettosa dei loro riti e delle loro tradizioni...
Il libro, comunque, rimane una toccante e preziosa testimonianza di uno sciamano Inuit.
Il mondo artico è evocato nel suo biancore e nel suo ghiaccio, nei kayak che percorrono le acque gelate, nella bellezza degli iceberg e degli abbaglianti specchi d'acqua che fanno risaltare, per contrasto, l'estrema povertà e durezza dell'esistenza.

La difficile infanzia di orfano, la battaglia quotidiana per la sopravvivenza, la dura preparazione per diventare un buon cacciatore: un lungo apprendistato lo trasforma in un potente sciamano, capace di evocare gli spiriti che popolano la terra, cercandoli n direzione del sorgere del sole.
La voce del protagonista e narratore, sincera e quasi brutale nella sua immediatezza e sincerità, parla di un universo primigenio ed intatto, dove la durezza delle natura e la crudeltà dei suoi simili spinge l’uomo ad una lotta quotidiana per la sopravvivenza; nella narrazione essenziale e semplice riecheggia il ritmo dei duelli di canti di una civiltà ormai scomparsa, in cui non c’è posto per i sentimenti o i pensieri, ma solo per sensazioni: fame, freddo, paura, dolore e solitudine non sono semplici parole, ma entità concrete e terribili.
Il primo racconto è di per sé illuminante: lo sciamano spiega di avere molti nomi (Qartsivaq che gli diedero il padre e la madre, Nangaq come lo chiamava la madre con un vezzeggiativo, Pitsingikajik come lo chiamava la zia materna, Qipìnge come si faceva chiamare quando iniziò a prepararsi per diventare sciamano, Georg che gli imposero quando in età adulta è stato battezzato, e Qupersiman, il nome di suo padre, come cognome) ma crede di non averne troppi perché “chi me li ha dati, mi ha donato una parte del suo patrimonio per dimostrarmi che mi voleva bene, e quindi sono contento di tutti quei nomi”!
Spiega anche di essere venuto al mondo in una località chiamata Narssalik, nell’anno 1889, in autunno, probabilmente in ottobre, “in ogni caso nel periodo in cui la neve appena caduta cessa di sciogliersi”.
La fame è sempre incombente, sin dalle prime pagine del racconto, ed in più occasioni ha rischiato di ucciderlo, quando le pur abbondanti scorte di carne di foca non erano sufficienti per affrontare il lungo inverno, perché “la regola diceva che se la scorta di carne si esauriva mentre il sole ancora tramontava, allora si aveva la certezza di non arrivare all’estate, di morire di fame prima”.
In caso di lutto, le donne dovevano osservare delle regole molto rigide, talvolta anche per un intero anno: non potevano indicare niente, né dire niente, non potevano mangiare con gli altri, potevano mangiare solo certe parti di foca, non potevano dormire di giorno e quando riprendevano ad uscire non potevano attraversare crepe o ruscelli da sole... Per gli uomini era più semplice: potevano ritornare a caccia dopo pochi giorni ma neppure a loro era concesso di fare qualsiasi cosa prima del giorno che segnava la fine del lutto.

Trapela ovunque il profondo amore che lega lo sciamano alla sua terra: “il nostro paese è bello, bellissimo, ma so anche che è crudele e che nell’arco dei tempi ci sono state molte carestie... il nostro paese è diverso dagli altri, e proprio per questo potevano succedere cose del genere… il grande svantaggio di questo nostro paese è che il tempo è pessimo durante l’inverno”.
Per sopportare la morsa del freddo, gli Inuit hanno dato un nome ed un’anima ai due venti dominanti, il nerrajàq ed il piteraq, che sono venti fortissimi e vengono identificati con un uomo “che arriva perché ha abbandonato il suo giaciglio”.
Ma hanno imparato a difendersi dal freddo e nella stagione calda costruivano le tende utilizzando due tipi di pelli: all’interno pelli di foca groenlandese, con il lato della carne rivolto verso il focolare, e all’esterno pelli di foca crestata private del pelo, ben impregnate di olio “che le faceva diventare di un colore rossiccio e le rendeva completamente impermeabili. Qualcuno, come strato esterno, usava vecchi rivestimenti di kayak o di umiak”.
I racconti dello sciamano sono ricchi di informazioni ed immagini sul kayak, l’imbarcazione con cui andavano a caccia di foche e narvali, anche se nella traduzione italiana non viene mai usata la parola “eskimo” ma piuttosto l’espressione generica di scuffiare o capovolgersi...
Il racconto "Mi regalano un kayak" chiarisce l’importanza di possedere un kayak, la difficoltà per un orfano di ottenerne uno e la riconoscenza nei confronti dello zio che lo raggiunge proprio perché sapeva che era giunto il momento di avere un kayak: “dopo essersi procurato un po’ di legname, cominciò a costruirmi un kayak; per la gran felicità non mi staccavo dal suo fianco. Era necessario che imparassi come fabbricarne uno, In seguito ne trassi profitto, perché costruii sempre i miei kayak da solo. Lo costruivo il più affusolati possibile, pensando alla velocità, sebbene i kayak stretti scuffiassero più facilmente. Ma una volta fatta l’abitudine alla nuova imbarcazione non si pensava più che potesse capovolgersi”.
E ancorai timori e le conquiste: “quando mio zio mi ebbe insegnato i primi rudimenti, mi esercitai da solo, e alla fine andavo in kayak dappertutto… pensai diverse volte di provare a scuffiare, ma ritenevo di non essere ancora abbastanza bravo. In quel periodo pensavo spesso a mio padre, che era stato ucciso mentre era in kayak. Credo che quel ricordo, o quel pensiero mi riempisse di paura e mi desse coraggio allo stesso tempo, spronandomi a esercitarmi ancora di più. Poi mi capito di scuffiare senza volerlo: dopo tutto non era tanto difficile tornare in equilibrio”!
Ed infine la grande prova decisiva della caccia: “con il tempo imparai a conoscer alla perfezione il mio kayak e, dopo che avevo imparato a raddrizzarmi, le tempeste non m i fecero più paura (!). Ma capitò diverse volte che le foche arpionate mi facessero scuffiare, ma non ci badavo (!!). Una volta anche un narvalo che avevo catturato mi trascinò come un galleggiante, ma me la cavai senza rovesciarmi perché fortunatamente non c’erano molti blocchi di ghiaccio (!!!)”.
Le credenze popolari e l’uso di portafortuna per combattere gli uomini che si mostrano malintenzionati o che fabbricano un tupilak, un essere creato allo scopo di uccidere la persona che il suo creatore gli indicava; esistevano molti modi diversi di creare un tupilak e anche molti sistemi differenti per neutralizzarli o per difendersi dai loro intenti malvagi: lo sciamano interroga il suo spirito ausiliario sul perché certi uomini soffrono di vertigini da kayak (forse il nostro comune mal di mare?) e riceve una risposta illuminante ed istruttiva: “nella maggior parte dei casi è perché qualcuno vuole recar loro danno o provocare un incidente. Devi sempre esaminare attentamente il tuo kayak, soprattutto d’inverno. Se quando la terra è coperta di neve e i fiori non si vedono, scopri che qualcuno ha messo delle piante non innevate nel tuo kayak, lo ha fatto perché ti vengano le vertigini. Ma se te ne accorgi e le butti via, non ti succederà niente. Fa così: prendi quelle piante e lasciale davanti all’ingresso dell’uomo che ritieni colpevole. Se le calpesta, sarà lui a soffrire di vertigini da kayak”...
Non si finisce mai di imparare!

Il libro è una lettura irrinunciabile per gli amanti del Grande Nord e per gli appassionati di kayak da mare, una fonte ricchissima di informazioni sulle abitudini del popolo dei ghiacci, una lunga serie di racconti sulle difficoltà e le gioie del vivere quotidiano in una terra inospitale ma rispettata e amata, una guida discreta ed attendibile ai costumi e alle tradizioni di un popolo lontano, profondamente legato ai ritmi della natura e ai misteri del soprannaturale.
 

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