"Il mio passato eschimese" è il racconto in prima persona della vita dello
sciamano Georg Qùpersiman, che ha affidato in vecchiaia le proprie memorie al
pastore protestante Otto Sandgreen, che le ha trascritte in un resoconto fedele,
suggestivo e coinvolgente.
Nella premessa, il pastore spiega che "Il mio passato eschimese: memorie di uno
sciamano della Groenlandia" è il titolo che ha scelto per il racconto che il
cacciatore di foche e sciamano Geor Qùpersiman gli fece della sua vita fino al
1915, anno in cui fu battezzato e venne iniziato ad una concezione cristiana
dell’esistenza. Ad onor del vero, precisa il pastore, la traduzione letterale
avrebbe dovuto essere "Quando Dio mi era ignoto" o, in forma più corretta, "Quando
ero pagano", ma ha tuttavia preferito cambiarlo “per mettere in evidenza che si
tratta di una descrizione della vita in un universo eschimese originario”.
Il pastore è animato da un’ansia tutta cristiana di conversione religiosa e
tutto il racconto risente di una criticabile concezione eurocentrica; sente il
bisogno di precisare, infatti, che è arrivato alla conclusione “che queste
persone credono fermamente, senza un’ombra di dubbio, a cose per noi singolari,
soprannaturali e inverosimili”, dimenticando forse che anche la religione
cristiana ha imposto dogmi tutt’altro che credibili. E conclude che “non è
possibile cambiare di colpo gli antichi usi e costumi, profondamente radicati
nella gente”, lasciandoci nell’illusione che la colonizzazione del popolo Inuit
sia stata meno brutale che altrove e che la cristianizzazione di quei popoli
lontani sia stata più rispettosa dei loro riti e delle loro tradizioni...
Il libro, comunque, rimane una toccante e preziosa testimonianza di uno sciamano
Inuit.
Il mondo artico è evocato nel suo biancore e nel suo ghiaccio, nei kayak che
percorrono le acque gelate, nella bellezza degli iceberg e degli abbaglianti
specchi d'acqua che fanno risaltare, per contrasto, l'estrema povertà e durezza
dell'esistenza.
La difficile infanzia di orfano, la battaglia quotidiana per la sopravvivenza,
la dura preparazione per diventare un buon cacciatore: un lungo apprendistato lo
trasforma in un potente sciamano, capace di evocare gli spiriti che popolano la
terra, cercandoli n direzione del sorgere del sole.
La voce del protagonista e narratore, sincera e quasi brutale nella sua
immediatezza e sincerità, parla di un universo primigenio ed intatto, dove la
durezza delle natura e la crudeltà dei suoi simili spinge l’uomo ad una lotta
quotidiana per la sopravvivenza; nella narrazione essenziale e semplice
riecheggia il ritmo dei duelli di canti di una civiltà ormai scomparsa, in cui
non c’è posto per i sentimenti o i pensieri, ma solo per sensazioni: fame,
freddo, paura, dolore e solitudine non sono semplici parole, ma entità concrete
e terribili.
Il primo racconto è di per sé illuminante: lo sciamano spiega di avere molti
nomi (Qartsivaq che gli diedero il padre e la madre, Nangaq come lo chiamava la
madre con un vezzeggiativo, Pitsingikajik come lo chiamava la zia materna,
Qipìnge come si faceva chiamare quando iniziò a prepararsi per diventare
sciamano, Georg che gli imposero quando in età adulta è stato battezzato, e
Qupersiman, il nome di suo padre, come cognome) ma crede di non averne troppi
perché “chi me li ha dati, mi ha donato una parte del suo patrimonio per
dimostrarmi che mi voleva bene, e quindi sono contento di tutti quei nomi”!
Spiega anche di essere venuto al mondo in una località chiamata Narssalik,
nell’anno 1889, in autunno, probabilmente in ottobre, “in ogni caso nel periodo
in cui la neve appena caduta cessa di sciogliersi”.
La fame è sempre incombente, sin dalle prime pagine del racconto, ed in più
occasioni ha rischiato di ucciderlo, quando le pur abbondanti scorte di carne di
foca non erano sufficienti per affrontare il lungo inverno, perché “la regola
diceva che se la scorta di carne si esauriva mentre il sole ancora tramontava,
allora si aveva la certezza di non arrivare all’estate, di morire di fame
prima”.
In caso di lutto, le donne dovevano osservare delle regole molto rigide,
talvolta anche per un intero anno: non potevano indicare niente, né dire niente,
non potevano mangiare con gli altri, potevano mangiare solo certe parti di foca,
non potevano dormire di giorno e quando riprendevano ad uscire non potevano
attraversare crepe o ruscelli da sole... Per gli uomini era più semplice:
potevano ritornare a caccia dopo pochi giorni ma neppure a loro era concesso di
fare qualsiasi cosa prima del giorno che segnava la fine del lutto.
Trapela ovunque il profondo amore che lega lo sciamano alla sua terra: “il
nostro paese è bello, bellissimo, ma so anche che è crudele e che nell’arco dei
tempi ci sono state molte carestie... il nostro paese è diverso dagli altri, e
proprio per questo potevano succedere cose del genere… il grande svantaggio di
questo nostro paese è che il tempo è pessimo durante l’inverno”.
Per sopportare la morsa del freddo, gli Inuit hanno dato un nome ed un’anima ai
due venti dominanti, il nerrajàq ed il piteraq, che sono venti fortissimi e
vengono identificati con un uomo “che arriva perché ha abbandonato il suo
giaciglio”.
Ma hanno imparato a difendersi dal freddo e nella stagione calda costruivano le
tende utilizzando due tipi di pelli: all’interno pelli di foca groenlandese, con
il lato della carne rivolto verso il focolare, e all’esterno pelli di foca
crestata private del pelo, ben impregnate di olio “che le faceva diventare di un
colore rossiccio e le rendeva completamente impermeabili. Qualcuno, come strato
esterno, usava vecchi rivestimenti di kayak o di umiak”.
I racconti dello sciamano sono ricchi di informazioni ed immagini sul kayak,
l’imbarcazione con cui andavano a caccia di foche e narvali, anche se nella
traduzione italiana non viene mai usata la parola “eskimo” ma piuttosto
l’espressione generica di scuffiare o capovolgersi...
Il racconto "Mi regalano un kayak" chiarisce l’importanza di possedere un
kayak, la difficoltà per un orfano di ottenerne uno e la riconoscenza nei
confronti dello zio che lo raggiunge proprio perché sapeva che era giunto il
momento di avere un kayak: “dopo essersi procurato un po’ di legname, cominciò a
costruirmi un kayak; per la gran felicità non mi staccavo dal suo fianco. Era
necessario che imparassi come fabbricarne uno, In seguito ne trassi profitto,
perché costruii sempre i miei kayak da solo. Lo costruivo il più affusolati
possibile, pensando alla velocità, sebbene i kayak stretti scuffiassero più
facilmente. Ma una volta fatta l’abitudine alla nuova imbarcazione non si
pensava più che potesse capovolgersi”.
E ancorai timori e le conquiste: “quando mio zio mi ebbe insegnato i primi
rudimenti, mi esercitai da solo, e alla fine andavo in kayak dappertutto… pensai
diverse volte di provare a scuffiare, ma ritenevo di non essere ancora
abbastanza bravo. In quel periodo pensavo spesso a mio padre, che era stato
ucciso mentre era in kayak. Credo che quel ricordo, o quel pensiero mi riempisse
di paura e mi desse coraggio allo stesso tempo, spronandomi a esercitarmi ancora
di più. Poi mi capito di scuffiare senza volerlo: dopo tutto non era tanto
difficile tornare in equilibrio”!
Ed infine la grande prova decisiva della caccia: “con il tempo imparai a
conoscer alla perfezione il mio kayak e, dopo che avevo imparato a raddrizzarmi,
le tempeste non m i fecero più paura (!). Ma capitò diverse volte che le foche
arpionate mi facessero scuffiare, ma non ci badavo (!!). Una volta anche un
narvalo che avevo catturato mi trascinò come un galleggiante, ma me la cavai
senza rovesciarmi perché fortunatamente non c’erano molti blocchi di ghiaccio
(!!!)”.
Le credenze popolari e l’uso di portafortuna per combattere gli uomini che si
mostrano malintenzionati o che fabbricano un tupilak, un essere creato allo
scopo di uccidere la persona che il suo creatore gli indicava; esistevano molti
modi diversi di creare un tupilak e anche molti sistemi differenti per
neutralizzarli o per difendersi dai loro intenti malvagi: lo sciamano interroga
il suo spirito ausiliario sul perché certi uomini soffrono di vertigini da kayak
(forse il nostro comune mal di mare?) e riceve una risposta illuminante ed
istruttiva: “nella maggior parte dei casi è perché qualcuno vuole recar loro
danno o provocare un incidente. Devi sempre esaminare attentamente il tuo kayak,
soprattutto d’inverno. Se quando la terra è coperta di neve e i fiori non si
vedono, scopri che qualcuno ha messo delle piante non innevate nel tuo kayak, lo
ha fatto perché ti vengano le vertigini. Ma se te ne accorgi e le butti via, non
ti succederà niente. Fa così: prendi quelle piante e lasciale davanti
all’ingresso dell’uomo che ritieni colpevole. Se le calpesta, sarà lui a
soffrire di vertigini da kayak”...
Non si finisce mai di imparare!
Il libro è una lettura irrinunciabile per gli amanti del Grande Nord e per gli
appassionati di kayak da mare, una fonte ricchissima di informazioni sulle
abitudini del popolo dei ghiacci, una lunga serie di racconti sulle difficoltà e
le gioie del vivere quotidiano in una terra inospitale ma rispettata e amata,
una guida discreta ed attendibile ai costumi e alle tradizioni di un popolo
lontano, profondamente legato ai ritmi della natura e ai misteri del
soprannaturale.
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