TATIYAK - letture

Il misterioso popolo dei ghiacci
Vita e cultura degli ultimi eschimese

Silvio Zavatti - Ed. Longanesi 1977

Scheda del 26 maggio 2009 a cura di Tatiana Cappucci

Quando ancora non c’era in Italia un volume dedicato agli Inuit, Silvio Zavatti ha scritto un libro prezioso, frutto delle sue spedizioni nell’Artico Canadese e nella Groenlandia orientale di Angmagssalik, raccogliendo in un lavoro organico i numerosi contributi scientifici che aveva nel tempo pubblicato in riviste specializzate italiane e straniere.
Antropologo autodidatta e appassionato esploratore, Zavatti ci introduce nella vita degli ultimi Inuit, un piccolo popolo che ha saputo sviluppare una cultura raffinata ed affascinante.
“Ingannati dai bianchi in tutti i modi, cacciati dalle loro sedi quando una potenza decideva di costruirvi una delle tante basi militari che hanno snaturato l’Artide, traditi nelle scuole, disprezzati nel loro mondo interiore, sottoposti a un conversione religiosa che sentono estranea, oggi gli eschimesi si ribellano alla loro fine decisa da coloro che la fanno da padroni sulle terre dei loro avi”: il monito della quarta di copertina correda il volume, rigorosamente documentato e ricco di illustrazioni, un racconto avvincente e straordinariamente attuale.

Zavatti si è fatto archeologo ed etnologo: nei suoi viaggi di esplorazione ha scoperto un insediamento paleo-eschimese con un imponente graffito rappresentante un cane in corsa di notevole importanza perché rappresenta il secondo esempio di arte rupestre e perché fornisce la prova che gli Inuit disegnavano ed incidevano per diletto, come fanno oggi quei tanti Inuit divenuti grandi artisti di fama mondiale.
L’isola sulla quale è stato rinvenuto il graffito poteva essere raggiunta solo in kayak durante la stagione della caccia, anche se forse è più probabile la tesi avanzata dallo studioso secondo cui gli Inuit la raggiungevano in slitta prima del disgelo per predisporsi alla caccia all’orso.
Il kayak è comunque annoverato tra le grandi invenzioni degli Inuit, oltre all’igloo (esempio di mirabile architettura polare), al parka (vero miracolo di sartoria che consentiva di non esporre al gelo nessuna parte del corpo, neanche per l’espletamento dei bisogni fisiologici), alle calzature cucite a mano e perfettamente impermeabili, all’arpione per la caccia che ha fatto degli Inuit dei tiratori formidabili, alla slitta che, pur non essendo una loro invenzione, è stata perfezionata con accorgimenti ingegnosi che l’hanno resa versatile ed indistruttibile.
Il kayak di cui ci parla Zavatti “è la caratteristica imbarcazione da caccia, in cui l’uomo diventa un tutt’uno col natante, perfettamente impermeabilizzata grazie a intelligenti accorgimenti. Il kayak è lungo circa tre metri e largo solo (!) 60 centimetri; è costruito con pelli di foca cucite, ben distese, su un sottile e robustissimo telaio di legno o di osso. Nel mezzo della parte superiore c’è un foro circolare, entro cui prende posto l’uomo, che è stretto da una specie di pancera di morbide pelli di foca, cucita a sua volta alle pelli che costituiscono lo scafo”.
Nutro qualche perplessità sulla veridicità delle misure del kayak, forse troppo largo e molto probabilmente troppo corto, ma nulla esclude che possano essere proprio quelle le misure delle imbarcazioni degli Inuit incontrati dall’esploratore, che riconosce loro grandi doti costruttive: “Sono impareggiabili costruttori del kayak e dell’umyak, e anche in essi si nota la mano di un artistica: alcuni esemplari, infatti, sono di una leggerezza incredibile e presentano cuciture perfette”!

Attenti osservatori dei fenomeni naturali ed esperti navigatori capaci di affrontare mari impegnativi e burrascosi, i cacciatori Inuit non conoscevano bussola e sestante e non sapevano leggere le carte nautiche e geografiche. Ma quando si chiede di tracciare il loro territorio, lo sanno fare sempre in modo sorprendentemente esatto: precisione dei dettagli, perfetto orientamento e rassomiglianza incredibile con una moderna carta geografica.
Fiutano l’aria, leggono le neve, studiano i ghiacci e si lasciano guidare dall’istinto.
Così vicini al Polo, forse “risentono” davvero del magnetismo terrestre e dovunque si volgano sanno sempre dove sono e dove andare per tornare a casa, anche nel bel mezzo di furiose bufere di neve o di imprevedibili distacchi di isole ghiacciate sospinte alla deriva...


Schizzo manuale di anonimo Inuit – Carta dell’Ammiragliato britannico

Il lavoro di Zavatti è illuminante, forse un po’ didascalico e storicamente alquanto datato, ma estremamente appassionante.
Ricco di note bibliografiche, di ricerche approfondite e di studi tematici, il volume presenta un ragionato indice analitico che spazia dai miti ai tabù, dall’importanza del nome alle regole della caccia, dai curiosi giochi di cordicelle e nodi alle molteplici manifestazione artistiche di un popolo straordinario.
“Un popolo che merita il più grande rispetto a causa della sua intelligenza, della sua forza spirituale, del suo altruismo e del suo coraggio di fronte alle spaventose avversità di cui lì esistenza gli è prodiga”. Un popolo schiacciato dalla civiltà bianca dell’alcool, delle malattie, del consumismo e della Coca-Cola che Zavatti, con impareggiabile lungimiranza, già del 1977 denunciava come causa principale di carie dentarie sino ad allora sconosciute tra gli Inuit e di una pericolosa alterazione delle abitudini alimentari che avrebbero finito per debilitare quei piccoli uomini dei ghiacci.
Eppure, nel campo della dietetica e della medicina naturale, gli Inuit avevano fatto sorprendenti scoperte e conoscevano da secoli il potere nutritivo dei grassi, il valore vitaminico delle bacche agrodolci del ribes, il sollievo generato dalle pietre riscaldate per lenire gravi disturbi della vescica (per quei cacciatori che, dopo giorni interi nella tormenta nella assoluta impossibilità di soddisfare le funzioni fisiologiche, tornavano all’accampamento e si contorcevano dai dolori); conoscevano anche il modo di saldare le fratture con ossa di balene e medicavano la ferita con il muschio prima di fasciarla con budella seccate delle foche più grosse.
Ciò nonostante, il grido di allarme urlato con forza da Zavatti deve essere rimasto inascoltato!

Avevo a lungo coltivato un’idea forse romantica sulla estrema lontananza degli Inuit dagli altri popoli della terra: isolati in luoghi inospitali perché incapaci per indole, carattere e natura, di lottare contro altri uomini, occupati come sono sempre stati a lottare contro la natura per poter sopravvivere nell’Artico estremo.
Convinti che la terra sia di tutti coloro che la abitano, animali compresi, e troppo miti per difendere la terra su cui vivevano, gli Inuit hanno forse spontaneamente accettato di spostarsi più al nord e più al freddo pur di non scontrarsi con altri uomini, pur di non dover fare la guerra...
Forse ho trovato una conferma a questa mia teoria romantica nelle conclusioni cui perviene Zavatti quando traccia la sua “geografia della mitezza”, uno strabiliante fenomeno insieme antropologico e psicologico, geografico ed economico, storico ed archeologico, in cui rientrano secondo lo studioso tutti quei popoli che ignorano la guerra e la violenza come strumento di risoluzione delle controversie: per diverse cause geografiche, economiche o religiose, gli Inuit non sono mai stati guerrieri e gli unici fatti di sangue storicamente documentati si sono verificati per la difesa contro la prepotenza dei vichinghi o delle tribù indiane dell’interno, che li hanno spinti sempre più a nord per occupare le pianure ricche di selvaggina...
Gli Inuit hanno scelto il freddo per non scegliere la guerra, l’isolamento invece dello scontro, la lontananza invece della convivenza litigiosa… un popolo mite che ha trovato nei ghiacci la sua casa... e tra i ghiacci non si sono mai avute guerre!

Silvio Zavatti è stato geografo, etnologo ed esploratore delle regioni polari.
Dopo avere curato un volume di Poesia Eschimese (Roma, Edizioni OMI 1966) ed avere scritto un Dizionarietto Italiano-Groenlandese (Istituto Geografico Polare – 1963), Silvio Zavatti ha voluto raccogliere in un testo unico le leggende che lui stesso aveva sentito raccontare dalle donne nelle lunghe notti artiche.
A soli venti anni era diventato capitano di lungo corso su di una nave inglese e per diletto iniziò a scrivere dei suoi viaggi, raccontando il sistema di vita dei popoli visitati e aggiungendo la descrizione della loro civiltà, che appariva molto meno primitiva di quanto si pensasse. Pur essendo antropologo autodidatta, la sua esperienza e l’amore per le genti del Nord fecero si che riuscisse, tramite le sue numerose pubblicazioni, a far conoscere ed apprezzare queste popolazioni. Ha fondato nel 1944 a Fermo l'Istituto Geografico Polare (www.museopolare.it), ha raccolto il frutto della sua attività scientifica nel Museo Polare Etnografico e ha dato vita alla stampa della rivista “Il Polo” ancora oggi in pubblicazione per la divulgazione delle ricerche polari italiane.

 

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