Quando ancora non c’era in Italia un volume dedicato agli Inuit, Silvio Zavatti
ha scritto un libro prezioso, frutto delle sue spedizioni nell’Artico Canadese e
nella Groenlandia orientale di Angmagssalik, raccogliendo in un lavoro organico
i numerosi contributi scientifici che aveva nel tempo pubblicato in riviste
specializzate italiane e straniere.
Antropologo autodidatta e appassionato esploratore, Zavatti ci introduce nella
vita degli ultimi Inuit, un piccolo popolo che ha saputo sviluppare una cultura
raffinata ed affascinante.
“Ingannati dai bianchi in tutti i modi, cacciati dalle loro sedi quando una
potenza decideva di costruirvi una delle tante basi militari che hanno snaturato
l’Artide, traditi nelle scuole, disprezzati nel loro mondo interiore, sottoposti
a un conversione religiosa che sentono estranea, oggi gli eschimesi si ribellano
alla loro fine decisa da coloro che la fanno da padroni sulle terre dei loro
avi”: il monito della quarta di copertina correda il volume, rigorosamente
documentato e ricco di illustrazioni, un racconto avvincente e
straordinariamente attuale.
Zavatti
si è fatto archeologo ed etnologo: nei suoi viaggi di esplorazione ha scoperto
un insediamento paleo-eschimese con un imponente graffito rappresentante un cane
in corsa di notevole importanza perché rappresenta il secondo esempio di arte
rupestre e perché fornisce la prova che gli Inuit disegnavano ed
incidevano per diletto, come fanno oggi quei tanti Inuit divenuti grandi artisti
di fama mondiale.
L’isola sulla quale è stato rinvenuto il graffito poteva essere raggiunta solo
in kayak durante la stagione della caccia, anche se forse è più probabile la
tesi avanzata dallo studioso secondo cui gli Inuit la raggiungevano in slitta
prima del disgelo per predisporsi alla caccia all’orso.
Il kayak è comunque annoverato tra le grandi invenzioni degli Inuit, oltre
all’igloo (esempio di mirabile architettura polare), al parka (vero miracolo di
sartoria che consentiva di non esporre al gelo nessuna parte del corpo, neanche
per l’espletamento dei bisogni fisiologici), alle calzature cucite a mano e
perfettamente impermeabili, all’arpione per la caccia che ha fatto degli Inuit
dei tiratori formidabili, alla slitta che, pur non essendo una loro invenzione,
è stata perfezionata con accorgimenti ingegnosi che l’hanno resa versatile ed
indistruttibile.
Il kayak di cui ci parla Zavatti “è la caratteristica imbarcazione da caccia, in
cui l’uomo diventa un tutt’uno col natante, perfettamente impermeabilizzata
grazie a intelligenti accorgimenti. Il kayak è lungo circa tre metri e largo
solo (!) 60 centimetri; è costruito con pelli di foca cucite, ben distese, su un
sottile e robustissimo telaio di legno o di osso. Nel mezzo della parte
superiore c’è un foro circolare, entro cui prende posto l’uomo, che è stretto da
una specie di pancera di morbide pelli di foca, cucita a sua volta alle pelli
che costituiscono lo scafo”.
Nutro qualche perplessità sulla veridicità delle misure del kayak, forse troppo
largo e molto probabilmente troppo corto, ma nulla esclude che possano essere
proprio quelle le misure delle imbarcazioni degli Inuit incontrati
dall’esploratore, che riconosce loro grandi doti costruttive: “Sono
impareggiabili costruttori del kayak e dell’umyak, e anche in essi si nota la
mano di un artistica: alcuni esemplari, infatti, sono di una leggerezza
incredibile e presentano cuciture perfette”!
Attenti osservatori dei fenomeni naturali ed esperti navigatori capaci di
affrontare mari impegnativi e burrascosi, i cacciatori Inuit non conoscevano
bussola e sestante e non sapevano leggere le carte nautiche e geografiche. Ma
quando si chiede di tracciare il loro territorio, lo sanno fare sempre in modo
sorprendentemente esatto: precisione dei dettagli, perfetto orientamento e
rassomiglianza incredibile con una moderna carta geografica.
Fiutano l’aria, leggono le neve, studiano i ghiacci e si lasciano guidare
dall’istinto.
Così vicini al Polo, forse “risentono” davvero del magnetismo terrestre e
dovunque si volgano sanno sempre dove sono e dove andare per tornare a casa,
anche nel bel mezzo di furiose bufere di neve o di imprevedibili distacchi di
isole ghiacciate sospinte alla deriva...
Schizzo manuale di anonimo Inuit – Carta dell’Ammiragliato
britannico
Il lavoro di Zavatti è illuminante, forse un po’ didascalico e storicamente
alquanto datato, ma estremamente appassionante.
Ricco di note bibliografiche, di ricerche approfondite e di studi tematici, il
volume presenta un ragionato indice analitico che spazia dai miti ai tabù,
dall’importanza del nome alle regole della caccia, dai curiosi giochi di
cordicelle e nodi alle molteplici manifestazione artistiche di un popolo
straordinario.
“Un popolo che merita il più grande rispetto a causa della sua intelligenza,
della sua forza spirituale, del suo altruismo e del suo coraggio di fronte alle
spaventose avversità di cui lì esistenza gli è prodiga”. Un popolo schiacciato
dalla civiltà bianca dell’alcool, delle malattie, del consumismo e della
Coca-Cola che Zavatti, con impareggiabile lungimiranza, già del 1977 denunciava
come causa principale di carie dentarie sino ad allora sconosciute tra gli Inuit
e di una pericolosa alterazione delle abitudini alimentari che avrebbero finito
per debilitare quei piccoli uomini dei ghiacci.
Eppure, nel campo della dietetica e della medicina naturale, gli Inuit avevano
fatto sorprendenti scoperte e conoscevano da secoli il potere nutritivo dei
grassi, il valore vitaminico delle bacche agrodolci del ribes, il sollievo
generato dalle pietre riscaldate per lenire gravi disturbi della vescica (per
quei cacciatori che, dopo giorni interi nella tormenta nella assoluta
impossibilità di soddisfare le funzioni fisiologiche, tornavano all’accampamento
e si contorcevano dai dolori); conoscevano anche il modo di saldare le fratture
con ossa di balene e medicavano la ferita con il muschio prima di fasciarla con
budella seccate delle foche più grosse.
Ciò nonostante, il grido di allarme urlato con forza da Zavatti deve essere
rimasto inascoltato!
Avevo a lungo coltivato un’idea forse romantica sulla estrema lontananza degli
Inuit dagli altri popoli della terra: isolati in luoghi inospitali perché
incapaci per indole, carattere e natura, di lottare contro altri uomini,
occupati come sono sempre stati a lottare contro la natura per poter
sopravvivere nell’Artico estremo.
Convinti
che la terra sia di tutti coloro che la abitano, animali compresi, e troppo miti
per difendere la terra su cui vivevano, gli Inuit hanno forse spontaneamente
accettato di spostarsi più al nord e più al freddo pur di non scontrarsi con
altri uomini, pur di non dover fare la guerra...
Forse ho trovato una conferma a questa mia teoria romantica nelle conclusioni
cui perviene Zavatti quando traccia la sua “geografia della mitezza”, uno
strabiliante fenomeno insieme antropologico e psicologico, geografico ed
economico, storico ed archeologico, in cui rientrano secondo lo studioso tutti
quei popoli che ignorano la guerra e la violenza come strumento di risoluzione
delle controversie: per diverse cause geografiche, economiche o religiose, gli
Inuit non sono mai stati guerrieri e gli unici fatti di sangue storicamente
documentati si sono verificati per la difesa contro la prepotenza dei vichinghi
o delle tribù indiane dell’interno, che li hanno spinti sempre più a nord per
occupare le pianure ricche di selvaggina...
Gli Inuit hanno scelto il freddo per non scegliere la guerra, l’isolamento
invece dello scontro, la lontananza invece della convivenza litigiosa… un popolo
mite che ha trovato nei ghiacci la sua casa... e tra i ghiacci non si sono mai
avute guerre!
Silvio Zavatti è stato geografo, etnologo ed esploratore delle regioni
polari.
Dopo avere curato un volume di Poesia Eschimese (Roma, Edizioni OMI 1966) ed
avere scritto un Dizionarietto Italiano-Groenlandese (Istituto Geografico Polare
– 1963), Silvio Zavatti ha voluto raccogliere in un testo unico le leggende che
lui stesso aveva sentito raccontare dalle donne nelle lunghe notti artiche.
A soli venti anni era diventato capitano di lungo corso su di una nave inglese e
per diletto iniziò a scrivere dei suoi viaggi, raccontando il sistema di vita
dei popoli visitati e aggiungendo la descrizione della loro civiltà, che
appariva molto meno primitiva di quanto si pensasse. Pur essendo antropologo
autodidatta, la sua esperienza e l’amore per le genti del Nord fecero si che
riuscisse, tramite le sue numerose pubblicazioni, a far conoscere ed apprezzare
queste popolazioni. Ha fondato nel 1944 a Fermo l'Istituto Geografico Polare
(www.museopolare.it), ha raccolto il frutto della sua attività scientifica nel
Museo Polare Etnografico e ha dato vita alla stampa della rivista “Il Polo”
ancora oggi in pubblicazione per la divulgazione delle ricerche polari italiane.
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