Sogni artici è un libro magico.
Barry Lopez è uno scrittore sui generis, con la conoscenza di uno scienziato e
la sensibilità di un poeta!
Ha vissuto, studiato e sognato tra i ghiacci; capace di leggere la tundra e di
ascoltare il mare, ha reso protagonista il paesaggio e gli animali che in così
gran numero popolano l’Artico.
Ha scritto un capolavoro della letteratura di viaggio, a metà strada tra
saggistica e narrativa, un’opera di “antropologia poetica” che ancora oggi, a
distanza di oltre vent’anni dalla sua prima pubblicazione, seduce ed affascina
il lettore.
“I
miei debiti sono tanti e la mia gratitudine, soprattutto per quanti hanno
viaggiato con me nell’Artico, è molto profonda... Non so come esprimere
adeguatamente la mia riconoscenza agli abitanti dei vari villaggi per
l’atteggiamento comprensivo e gentile con cui hanno accolto la mia invasione.
Spesso, durante i miei viaggi, mi sono trovato ad aver bisogno d’un pasto e di
un rifugio per dormire: vorrei perciò ringraziare tutti coloro che mi hanno
aperto le loro case”.
I ringraziamenti con cui l’autore apre il saggio chiariscono subito il suo
profondo rispetto per l’ambiente artico e per gli uomini che lo abitano; e
tratteggiano una filosofia del paesaggio.
“Per alcuni, questa terra rappresenta un’irritante indisponibilità alla
collaborazione con l’uomo moderno”, eppure, se la si sa ascoltare e leggere,
diviene ricca e generosa: “se la mente abbandona la sua presa fiduciaria sul
tempo e non l’amministra convulsamente come un bene prezioso ma lo considera
indifferenziato come la piattezza del paesaggio, è possibile trascendere la
distanza... viaggiare lontano senza ansietà, non lasciarsi sconfiggere dalla
vastità della terra. Se si è vestiti in modo adatto e si porta una piccola
scorta di viveri e si hanno i mezzi per procurarsi altro cibo e costruire un
riparo, la mente è molto più libera di collaborare con i sensi nella valutazione
del territorio. La tundra pianeggiante così poco attraente, ricordo, è per i
suoi abitanti un magazzino di viveri e di utensili pronti”!!!
L’autore racconta tutto della balena polare (“è così sensibile che al contatto
delle zampe di un uccello una balena addormentata in superficie sussulta con
violenza”), del bue muschiato (“ha la curiosa abitudine di indugiare a volte
accosciato quando si rialza dalla posizione di riposo, e questo gli conferisce
l’aria di essere assorto in chissà quali pensieri”), dell’orso polare (pisugtooq,
il grande vagabondo secondo gli Inuit polari, ha un modo di camminare tutto
suo e l’andatura di un orso grasso in giugno è diversa da quella di un orso
magro in ottobre), del narvalo (“sono forti nuotatori e hanno la capacità di
modificare leggermente i contorni del corpo per ridurre la turbolenza”), del
caribù (“grigi pastori della tundra che passano come isole di fumo”), della foca
degli anelli, delle oche delle nevi, della volpe artica… delle loro abitudini,
delle loro migrazioni e delle loro capacità di adattamento.
L’Artico è una regione ancora misteriosa (“poiché gran parte delle sue acque è
ricoperta di ghiaccio, questo oceano continua ad essere il meno compreso tra i
mari del mondo”), e molti degli animali che lo abitano non sono stati studiati
abbastanza a lungo per comprendere cosa li spinge a migrare o cosa fanno durante
i mesi invernali o come sopravvivono sotto i ghiacci: come fanno le foche a
ricordare la posizione del loro aglu per respirare? è vero che gli orsi
sono mancini, come sostengono gli Inuit? perché il dente del narvalo è a
spirale?
Ci sono pochi animali nell’Artico: tra le 3200 specie di mammiferi se ne trovano
solo 23 che vivono oltre il limite settentrionale degli alberi, tra le 8600
specie di uccelli solo 6 o 7 svernano nell’Alto Artico, tra le innumerevoli
specie di insetti nell’Artide se ne trovano non più di 600 e tra le 30.000
specie di pesci meno di 50 riescono a vivere lassù!
Eppure, nell’Artico si contano numeri enormi di animali: il mare di Bering è
probabilmente il più ricco di tutti i mari nordici, al culmine della migrazione
primaverile la presenza della vita lascia completamente basiti, l’abbondanza di
pesce “viene espressa in numeri inconcepibili, le cifre deliranti di chi tira ad
indovinare”!
Nessuno sa ancora spiegare bene perché, ma tra maggio e giugno passa sopra il
Lancaster Sound un terzo della popolazione mondiale di gazze marine minori,
proveniente dalla Groenlandia nord-occidentale e costituita da 30 milioni di
individui!
Quando le balene polari tornano al Nord, talvolta devono attendere che il
ghiaccio si apra, ed un anno un ricercatore avvistò trecento balene che
aspettavano con calma, “alcune girate sul dorso, altre con il mento appoggiato
sul ghiaccio”!
Alcune mandrie di caribù raggiungono proporzioni impensabili di anche 700.000
unità, come gli abitanti di una grande città che si spostano in gruppo per
chilometri e chilometri!
Le grandi migrazioni di aria, di acqua e di terra (di uccelli, di mammiferi
marini e di caribù) sono forse dettate tutte dalla stessa ragione: cercare un
ambiente più favorevole per la riproduzione, la crescita e la sopravvivenza...
L’autore interpreta le migrazioni degli animali come una respirazione, la
respirazione della terra: “In primavera una grande inalazione di luce e di
animali. Il lungo respiro trattenuto dell’estate. E poi l’esalazione che in
autunno spinge tutti verso sud”!
Potrebbe sembrare una terra disabitata ed inospitale, ma gli animali la occupano
numerosi.
Potrebbe sembrare una terra arida e silenziosa, ma gli animali la fanno cantare:
“i gemiti tremuli delle foche barbate, il crepitio elettrico dei gamberetti, il
rombo baritonale dei trichechi, i latrati e i guaiti acuti delle foche degli
anelli, i trilli e le armoniche dei belukha e dei narvali, i barriti elefantini
delle balene polari”... aggiungete il rumore dei sedimenti che si spostano sul
fondo del mare, lo scricchiolio del ghiaccio marino, lo stridore del ghiaccio
profondo che urta nell’acqua bassa o le esplosioni delle lastra ghiacciate ed il
mondo Artico si anima di suoni e rumori poetici, stranamente armonizzati
nell’ambiente... o ancora il volo degli uccelli: “quando uno storno incomincia a
sollevarsi dalla superficie dell’acqua, il suono è simile a quello d’un
temporale in arrivo, un grande fragore di lamiere ondulate agitate con
violenza”!
Gli Inuit hanno appreso molto dagli animali, li hanno imitati per
sopravvivere, li hanno sfruttati per migliorare: sceglievano il corno del bue
muschiato, più flessibile del corno di caribù, per ricavarne lance per la pesca,
ed invece l’osso di orso polare più duro per costruire una punta robusta e
acuminata, oppure la pelle dei salmoni per le sacche impermeabili, o ancora gli
intestini delle foche barbate per le finestre degli igloo, e anche i fanoni di
balena, che non marciscono nell’acqua salmastra, per realizzare le trappole
elastiche per le anatre marine...
Apprezzavano particolarmente il narvalo per le sue zanne più resistenti
dell’avorio e più simili al legno, per la sua pelle morbida anche col freddo più
intenso, per i suoi tendini ottimi come fili per cucire, per lo strato esterno
di pelle come fonte importante di vitamina C, per il grasso da bruciare per una
fiamma gialla vivida e pulita, per la sua carne sufficiente a sfamare una muta
di cani da slitta per un mese...
Alcuni studiosi hanno osservato una speciale affinità tra gli Inuit e gli
orsi polari: la loro preda preferita è la foca dagli anelli, i metodi di caccia
si assomigliano stranamente, si guadagnano da vivere ai margini dei ghiacci
marini e vivono tutti sotto la minaccia della morte per fame, se le foche
dovessero sparire... ma hanno anche notato una differenza: mentre gli Inuit
non perdono quasi mai la calma, gli orsi invece si arrabbiano facilmente, se
dopo avere spiato a lungo una foca ne falliscono la cattura, per esempio,
lanciano in aria la neve o schiaffeggiano ripetutamente l’acqua per la
frustrazione!
E se chiedete ad un Inuit, come ha fatto Rasmussen, cos’è la felicità, lui
vi risponderà: “Incontrare tracce d’orso ancora fresche ed essere davanti a
tutte le altre slitte”!
Hanno inventato parole per esprimere concetti complessi: quinuituq,
pazienza profonda per l’attesa prolungata di un evento improvviso,
nuannaarpoq, il traboccante piacere di essere vivi, quviannikumut,
sentirsi profondamente felici per quel “senso familiare di espansività, di
euforia profonda ispirato dalle condizioni meteorologiche e abbinato alla
possibilità di osservare gli animali”.
L’autore si sofferma anche su concetti fondamentali: la necessità di conoscere
la lingua indigena, perché “significa conoscere ciò che coloro che parlano la
lingua hanno tratto dalla terra”, l’importanza di valorizzare l’omogeneità
naturale dell’Artide, dalla stretto di Bering alla Groenlandia, perché una
continuità linguistica tanto accentuata non si incontra in nessun’altra parte
del mondo, la capacità di apprezzare la corrispondenza tra la lingua e la
scultura Inuit, perché mentre noi occidentali dedichiamo nella nostra lingua
molta attenzione ai concetti di tempo gli Inuit la dedicano alla varietà
dello spazio...
“Molto ingegnosi davvero, come disse una volta qualcuno, questi uomini
sorridenti che non hanno tasche né cappelli né ruote”!
L’autore racconta anche delle mitiche esplorazioni artiche, tutta una sequenza
di scoperte ed avventure, di naufragi ed ammutinamenti, di incontri memorabili e
di viaggi coraggiosi: la storia centenaria della ricerca del passaggio a
Nord-Ovest, i nomi dati a stretti, isole e penisole dai grandi navigatori del
tempo, dedicati a regnanti, filantropi e finanziatori, interessati spesso alle
ricchezze nascoste dell’Artico ma talora anche alle conoscenze scientifiche e
alla passione intellettuale...
Senza dimenticare i viaggi di greci, cartaginesi, celti, vichinghi e norvegesi,
oltre che le stesse esplorazione Inuit, l’autore ci parla della Terranova di
Caboto del 1497, del Labrador di un labrador portoghese, un piccolo proprietario
terriero di nome Joào Fernandes che passò di là nel 1500, della baia di
Frobisher del 1585 e dello stretto di Davis dello stesso anno, della immensa
baia di Hudson del 1607, delle isole Bylot e Baffin del 1615, del famigerato
stretto tra i due continenti che prese il nome del danese Vitus Bering che lo
attraversò per primo nel 1725, e poi ancora dello stretto di Barrow del 1815,
delle isole Parry del 1819, dedicate ad uno dei più giovani ed intraprendenti
navigatori dell’Artico, oppure dello stretto M’Clure del 1850, in ricordo di
colui che partì per cercare la sfortunata e disastrosa spedizione Franklin al
seguito dell’ammirevole ma quasi ignorato Richard Collinson, superiore a tutti i
suoi contemporanei per l’impegno con cui si prese cura della salute e del morale
dei marinai durante i cinque anni di spedizione (cinque anni tra i ghiacci!),
arrivando persino a costruire un tavole per biliardo con blocchi di ghiaccio di
acqua dolce per la superficie, pelle di tricheco per le sponde e palle di legno
lavorate a mano...
Il timore reverenziale che accompagnava tutte le esplorazioni artiche lascia
riflettere a lungo: “la terra ingrandisce, diviene viva come un animale, umilia
l’uomo in modo indicibile. Non è il fatto che la terra sia semplicemente bella:
è la sua potenza… E’ una potenza che fluisce nella mente, dalla rivelazione del
modo in cui tenebre e luce vi sono collegate, e dalla sensazione che questa sia
la base della creazione”!
Racconta poi dell’arte di catturare la luce, della capacità di dipingere la
neve, della maestria di portare sulla tela l’enorme massa dei ghiacci: la storia
affascinante e misteriosa del dipinto che uno dei maggiori esponenti del
luminismo statunitense, Frederic Edwin Church, realizzò nel 1859 tra gli iceberg
delle coste di Terranova.
“I piccoli schizzi che aveva fatto dal vero, alcuni non più grandi del palmo
d’una mano, hanno una meravigliosa intimità. Church rende tanto la monolitica
imperscrutabilità degli iceberg quanto l’aspetto logoro e tormentato che hanno
quando arrivano a sud”.
La vera autrice dell’opera è la terra... e l’autore osserva che indagare la
complessità di un paesaggio lontano significa perlustrare il proprio paesaggio
interiore perché la terra ci sprona sempre a comprendere noi stessi!
Racconta anche di kayak, naturalmente!
Molto tempo prima che la spedizione finanziata da John Barrow nel 1818
incontrasse un gruppo di Polar Eskimo sulla costa della Groenlandia e con
l’aiuto di un interprete chiedesse loro “Chi siete? Che cosa siete? Da dove
venite? Dal sole o dalla luna?”, uno dei più abili navigatori inglesi, John
Davis, raggiunse nel 1585 le coste della Groenlandia sud-orientale al largo di
quello che si sarebbe chiamato Capo Farwell, dove ebbe luogo uno dei più
memorabili incontri tra due culture diverse di cui parli la letteratura artica:
durante una ricognizione dall’alto di un’isola, Davis e diversi altri furono
avvistati da un gruppo di Inuit che si trovavano sulla riva... “molti di
costoro si spinsero in acqua con i kayak... gli eschimesi si avvicinarono
cautamente con i kayak e due di loro giunsero vicinissimi alla riva”; in segno
di intesa e rispetto, i due gruppi inscenarono danze e musiche e si ritrovarono
anche alla spedizione successiva, anche se si trattò forse dell’unico
trattamento riguardoso riservato agli Inuit, certamente un caso unico nelle
prime cronache dell’esplorazione artica!
E ho forse capito perché istintivamente provo tanta ammirazione per gli Inuit:
“A volte scambiamo una vita dura per una mente rozza; la carne cruda per
barbarie, la mancanza di conversazione per mancanza di immaginazione.
L’impressione dominante, penso, per il viaggiatore dell’Artico che si allontana
dall’aereo e aspetta con pazienza che gli abitanti del villaggio si facciano
passare le sbornie solenni e dimentichino le scontrosità difensive ed il
comportamento timido, è che in questa gente si possa trovare una forma di
saggezza. E’ una saggezza eterna che sopravvive alle fallite economie umane,
sopravvive alle guerre. Sopravvive alle definizioni, E’ una saggezza senza nome
stimata da tutti. E’ comprendere come si vive una vita decente, come ci si deve
comportare nei confronti degli altri e nei confronti della terra”!!!
Finito
di leggere, il libro è tutto un fiorire di appunti a margine, di sottolineature,
di orecchie alle pagine... i libri si valutano anche per le orecchiette che uno
ci fa: questo è diventato per me un’orecchia continua, quasi un incastro
progressivo!
Uno dei libri più interessanti che abbia mai letto.
Pillole di saggezza, osservazioni brillanti, considerazioni profonde, ricerche
approfondite sul campo, studi di biologia, etnologia, pittura e sociologia;
molte carte geografiche, tutte incentrate sul Polo Nord per ridare alle terre le
loro giuste proporzioni, relative alle migrazioni degli animali o alle
concentrazioni di tribù Inuit o alle aree d'acqua aperte tutto l'anno;
disquisizioni dotte sul Polo Nord geografico, magnetico, geomagnetico, sul Polo
Nord vero e proprio e sul Polo Nord detto dell’inaccessibilità: “Immaginate di
essere esattamente al Polo Nord: vi trovate in tutti i ventiquattro fusi orari
contemporaneamente e a nord di ogni punto della terra. In questo giorno il sole
descrive un’orbita piatta di 360° esattamente a 23 ½° sopra l’orizzonte”...
quanta scienza e quanta poesia!
Una vita spesa alla ricerca del senso profondo della vita, in tutte le sue
forme, vegetali ed animali, e tra gli animali incidentalmente anche l’uomo...
“Da questo rapporto dignitoso con la terra è possibile immaginare un’estensione
di rapporti dignitosi in tutta la propria vita”!
Barry Lopez è biologo, etologo, antropologo ed è un noto scrittore di
viaggi.
Tra i riconoscimenti avuti c’è il Premio Letteratura della American Academy of
Arts and letters.
Nel 1986 “Sogni artici” gli è valso il National Book Award.
E' autore di numerose opere di narrativa e saggistica.
In Italia ha pubblicato
“Lettere dal Paradiso” (2002), "Lupi”
(1999 ) e
"Dalla Groenlandia al Congo” (1996),
edito da Traveller Feltrinelli, una raccolta di 12 racconti sulla natura, sul
rischio di vivere e sull'incomprensibile avventura di un viaggio; uno dei
racconti, il sesto, intitolato "Pearyland" è ambientato in Groenlandia. La
traduzione italiana di "Sogni artici" ha adottato il termine "eschimese" ma, pur
non essendo esperti di linguistica, nella scheda sinottica abbiamo preferito
adottare la parola "Inuit", salvo che nelle citazioni dirette, per dare voce e
seguito alla rivendicazione culturale e storica del popolo Inuit di essere
chiamati col nome che hanno scelto.
Il sito dell'autore è
www.barrylopez.com
|