Una riproduzione anastatica dell’edizione
originale del 1900, pubblicata ancora nel 1950 col titolo “Verso
l’Artide colla Stella Polare”, modificato poi più volte nel corso
degli anni al mutare degli editori. E’ illustrato da fotografie,
ritratti e ben dieci disegni di Gamba, che rendono l’opera ancora
più avvincente ed affascinante.
La
prima edizione del volume risale al lontano dicembre 1900: "La
Stella Polare" fu scritto quasi in contemporanea con il viaggio
esplorativo del Duca degli Abruzzi per rispondere alle richieste
dell’editore, che voleva un "instant book" da vendere come "strenna
natalizia", senza inimicarsi la famiglia reale italiana e cercando
di evitare una querelle letteraria, finita comunque in Tribunale. A
causa del suo rigore giornalistico, è forse uno dei libri meno
avvincenti di Salgari, che così introduce il volume: “Ai miei
giovani lettori, per vostra strenna di Natale quest’anno ho scritto
il presente racconto, desunto dagli articoli pubblicati dai giornali
e dalle riviste scientifiche, sul viaggio della Stella Polare verso
il Polo Nord... La relazione ufficiale, che il Duca degli Abruzzi
sta preparando, è destinata agli scienziati; il racconto che ho
scritto per voi, invece, è tessuto su quanto sinora l’Augusto
Principe ha comunicato alla stampa ed al pubblico; ma vi ho
intercalato quanto si conosce sulle regioni iperboree, cercando di
rendere popolare, attraente ed istruttiva la storia dei viaggi
polari...”.
Pur seduto alla sua scrivania, Salgari lascia libera la fantasia di
animare il suo racconto e parte all’avventura come fosse un membro
della spedizione: salpa sulla Stella Polare, un legno del 1882
rinforzato nello scafo e con 22 uomini di equipaggio, capitanati
dall’allora ventiseienne Duca degli Abruzzi, che nella notte artica
perde due dita della mano per il congelamento.
Come un cacciatore provetto, narra di epiche battaglie con gli orsi,
di slitte trainate dai cani, di caccia alle foche, ai trichechi e ai
narvali, “bei pesci dotati di un’agilità straordinaria, d’una tinta
azzurra e bianco argentea, a macchie semicircolari, difficilissimi
da prendersi e anche talvolta pericolosi, essendo armati di un corno
scannellato, aguzzo, d’un avorio compattissimo, e che è lungo un
terzo e qualche volta perfino la metà del pesce”.
Parla come se li avesse calpestati di iceberg e di icefields, grandi
banchi di ghiaccio, e anche di palks, lastroni di forma allungata,
di streams dalla forma quasi circolare e di hummoks, piccole
montagnole di ghiaccio “d’una resistenza poco considerevole”.
Spiega come li avesse provati sulla propria pelle gli effetti del
freddo polare: “il ferro diventa come ardente e brucia le mani che
lo toccano, il vetro diventa un pericolo e guai alle labbra che
osassero posarsi sull’orlo d’un bicchiere, il pane e la carne
acquistano la durezza della quercia, il legname quello delle ossa
più dure, il petrolio, il vino e perfino l’acquavite formano un
blocco”.
Ed incontra i popoli del grande nord, dapprima i
lapponi, biondi e tozzi, dai capelli scarmigliati e “così sporchi da
far ribrezzo”, poi i siberiani, uomini di parola, ed infine gli
"eschimesi", di cui traccia fattezze e caratteristiche in maniera
magistrale: “Sono uomini di statura piuttosto piccola, col corpo
grosso, tozzo, le gambe corte, gli zigomi sporgenti, la faccia
larga, il naso schiacciato, i capelli lunghi e ruvidi e la pelle
giallo-bruna, coperta eternamente da uno strato di grasso di tinta
indefinibile che tramanda un odore pestifero d’olio rancido e che
mai si toglie”.
Talvolta esagera, come quando enuncia l’altezza degli iceberg in 200
metri, che invece sono alti “solo” alcune decine di metri, oppure
quando parla di incontri con dozzine di orsi polari, che mai si
riuniscono in branchi se non quando incontrano qualche carcassa di
animale.
Il tono è sempre un po’ retorico, ma il suo piglio avventuroso è
coinvolgente, la lettura scivola via che è un piacere.
Gli si possono così facilmente perdonare delle piccole incongruenze
o delle superficiali disattenzioni e fa quasi sorridere la sua
definizione del nostro amato kayak, che non poteva certo
mancare nella narrazione dell’esplorazione artica, e che lo
scrittore definisce ora barchetta e ora canotto (sigh!): “con le
pelli delle foche... (l’eschimese) copre le sue barchette chiamate
kayaks, rendendole impermeabili... s’imbarca sul suo canotto,
s’affida audacemente alle onde e va ad assalire i mammiferi che sono
numerosi nelle sue regioni”.
Poco più avanti si dilunga in qualche altro dettaglio, quando i
preparativi fervono per “l’assalto al polo” e tutto deve essere
controllato: “Si preparano slitte e si rinforzano, onde possano
resistere meglio agli urti; si scelgono con gran cura i viveri, le
armi, le munizioni, le vesti per poter sfidare i rigori intensi del
freddo, le lampade a spirito... e si esaminano attentamente i kajak
(stavolta con la j!), quei piccoli canotti usati dagli eschimesi,
formati di pelli montate su uno scheletro leggerissimo e che possono
essere necessari per attraversare i canali”. Si direbbe quasi che
Salgari ne abbia visto davvero uno e ci sia salito sopra, solo che
non sappia bene come chiamarlo.
E gli si perdona anche l'uso del termine "eschimese", mantenuto nel
testo anche nella più recente edizione, perché al principio del
Novecento non era certo adottato in tono dispregiativo come poi sarà
nel corso dei decenni successivi, tanto che oggi gli Inuit
rivendicano il loro nome storico.
La spedizione italiana avrà successo: pur non riuscendo a
raggiungere il Polo Nord, gli uomini del capitano Cagni superano
tutti i punti sino ad allora toccati dai precedenti esploratori,
compreso Nansen, che pure aveva raggiunto gli 86° nord, e lo stesso
Peary, che nel medesimo periodo si doveva arrestare a 84°17’ 27’’
nord, due gradi meno.
“A 86°33' ed a 65° di longitudine Greenwick, la spedizione, sfinita,
esausta e già alle prese con la fame, s'arresta. E' impossibile
andare più innanzi. Il polo è la morte. E' il giorno di San Marco,
patrono di Venezia. Spiegano la bandiera italiana al gelido vento
polare, più innanzi di tutti quelli che si sono avanzati in quelle
regioni dei ghiacci eterni e s'accampano per solennizzare meglio che
possono il felice avvenimento”.
Queste folli corse verso la conquista del Polo Nord, che gli Inuit
non riuscivano a comprendere in nessun modo, ritenendo gli sforzi
degli europei inutili perché rivolti ad una zona di ghiaccio dove
non c’era niente, neanche animali da cacciare, dovevano continuare
ancora per molti anni e vengono magistralmente riassunte
nell’appendice del volume, con alcuni interessanti saggi di studiosi
ed esperti. Il volume, infatti, è stato ristampato con la
collaborazione del Museo Nazionale della Montagna di Torino, che non
a caso porta il nome del Duca degli Abruzzi.
Emilio
Salgari non è solo l’autore di Sandokan e dei pirati della
Malesia, i romanzi di avventura che hanno accompagnato la
nostra infanzia e che hanno avuto felici trasposizioni
cinematografiche. E’ stato anche un prolifico scrittore e
giornalista che ha sfornato decine di romanzi di avventura nei
quattro angoli del mondo.
Non poteva mancare il viaggio al Polo Nord della Stella Polare, la
nave della spedizione del Duca degli Abruzzi che il 25 aprile 1900
issò la bandiera italiana nei pressi del polo. Come altri racconti
dalle terre dei ghiacci, che non è facile scovare negli scaffali
polverosi delle librerie dell’usato ma che talvolta vengono
ristampati: merita di essere letto “Nel paese dei ghiacci” – Fabbri
Editore 2002 – con illustrazioni di Alberto Della Valle e due lunghi
racconti di mare, “I naufraghi dello Spitzberg” e “I cacciatori di
foche della Baia di Baffin”, ambientati in quelle zone fredde
prediletto dall’autore. Famoso per i suoi romanzi, Salgari trova nei
racconti uno stile narrativo a lui congeniale, espressione di una
scrittura intensa, essenziale, lineare, fortemente legata alla
capacità di narrare e di conquistare il lettore.
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