Il film si conclude con due schede esplicative
che valgono l’introduzione.
Nel 1951, nel pieno della Guerra Fredda, gli statunitensi installano
nel cuore del territorio di Thule, un piccolo villaggio Inuit di
appena 300 abitanti nel nord-ovest della Groenlandia, una gigantesca
base militare nucleare, senza informare gli Inuit e senza
sottoscrivere con loro nessun accordo.
Il 21 gennaio 1968 un bombardiere USA si schianta sulla banchisa nei
pressi di Thule con quattro bombe H: una di queste viene perduta
nell’oceano e non sarà mai più ritrovata.
Il
3 aprile 1969, Jean Malaurie ritorna a Thule per realizzare un
documentario sullo stile di vita Inuit.
Il geografo ed antropologo francese aveva già vissuto con loro 14
mesi nel 1951, imparando a guidare la slitta trainata dai cani, a
cacciare la foca, a costruire l’igloo e a sopravvivere secondo le
antiche tecniche Inuit nel paese più a nord di tutto il pianeta.
Spaventato dai recenti e drammatici accadimenti, preoccupato per le
manovre strategiche condotte sullo scacchiere internazionale dalle
grandi potenze, convinto che le operazioni occidentali potessero
minacciare la sopravvivenza di un popolo millenario e fragile,
decide di recarsi nuovamente dai suoi amici Inuit per documentare le
loro antiche tradizioni, nella speranza di mantenerle vive.
L’esperienza di Jean Malaurie prenderà forma anche in un corposo
volume con lo stesso nome del documentario: “Gli ultimi re di Thule”.
In entrambi i lavori traspare il profondo rispetto per il popolo
Inuit e la forte volontà di preservare i valori e le aspirazioni di
un gruppo etnico isolato e minacciato, passato in pochi decenni
dall’età della pietra all’era atomica.
Il documentario ripercorre in maniera sintetica le esperienze più
significative vissute dallo scienziato francese nelle terre degli
Inuit ed avere letto il libro sicuramente aiuta nella comprensione
della narrazione in francese, con la voce fuori campo dello stesso
Malaurie (pure ritratto in una delle scene conclusive all’interno
dell’igloo della famiglia Inuit che lo ospita).
Gli Inuit cacciano la foca.
Sono
talmente legati alla tradizionale caccia alla foca da essere stati
anche definiti “il popolo delle foche”. Cacciano la foca attraverso
l’aglù, il foro di respirazione che le foche scavano nel ghiaccio
per salire a respirare ogni venti muniti circa; ne scavano molti, di
fori, lungo la banchisa, e per capire che la foca sta salendo
l’Inuit sistema sull’aglù qualche pelo di lepre, tanto leggero da
muoversi al primo sbuffo, così da consentirgli di scagliare
immediatamente l’arpione ed assicurarsi la preda.
La prima scena del documentario ritrae alcuni Inuit intenti nella
caccia alla foca: realizzano un foro più grande, tolgono il ghiaccio
che si riforma, attendono pazientemente, talvolta anche molto a
lungo e sempre in silenzio, nella stessa posizione, un po’ curvi e
già pronti a scagliare l’arpione; per non fare rumore rivestono le
suole dei propri stivali con pelle di orso e persino i cani sono
addestrati a non guaire o abbaiare quando il padrone è occupato
nella caccia.
I cani sono i migliori amici degli Inuit.
Senza di loro probabilmente gli uomini non sarebbero riusciti a
sopravvivere in un clima tanto ostile.
Sono husky resistenti al freddo, capaci di sopportare grandi fatiche
e di rimanere anche molti giorni a digiuno; sono stati addestrati
dall’uomo per trainare le slitte, ma rimangono pur sempre cani
selvatici, molto aggressivi e talvolta pericolosi. Le slitte
trainate da una muta di 6-10 cani, legati a ventaglio per lasciarli
liberi di scegliere ciascuno il proprio percorso tra il dedalo di
spaccature nel ghiaccio, permettono agli Inuit di coprire lunghe
distanze, anche se al tempo delle spedizioni artiche nessun
esploratore è mai riuscito a percorrere più di 60 km in un solo
giorno, complice il cattivo tempo e la deriva dei ghiacci.
La muta di cani ha un suo capo branco, il nagalaq degli Inuit, il
cane più forte e dal carattere più autorevole.
Spesso la vita dell’uomo dipende dalla capacità di tenere testa alla
muta oppure dalla sua totale fiducia nella capacità del capo branco;
il legame affettuoso che si sviluppa spesso tra l’Inuit ed i suoi
cani non gli impedisce di ucciderli in caso di carestia o per
rimediare ad un principio di congelamento (ricordate Ombre
Bianche?).
Non appena raggiunto il campo, l’Inuit si affretta a legare i cani.
Un ponticello ricavato nel ghiaccio sarà sufficiente per tenere a
bada l’intera muta anche durante le delicate operazioni per sfamare
i cani: 3-4 kg di carne di tricheco ciascuno, lanciata nel gruppo
con calcolata sapienza (prima il nagalaq), i cani attenti a non
lasciar cadere in terra il più piccolo pezzetto di carne, che
ingurgitano ancora cruda e gelata e che impiegano le successive 24
ore per digerire, così da attutire i morsi della fame durante il
resto del viaggio.
Nella
caccia al tricheco l’Inuit si è evoluto.
Non utilizza più solo il kayak e l’arpione, ma anche le
imbarcazioni a motore ed i fucili.
Il pesante peschereccio viene trasportato sulle slitte attraverso la
banchisa fino al mare aperto e rischia più di una volta di rimanere
imprigionato tra i ghiacci durante la caccia.
Il tricheco è un possente animale marino che al primo sole ama
sdraiarsi sul ghiaccio. L’Inuit un tempo lo avvicinava piano piano,
mimando i suoi stessi movimenti, sdraiato a sua volta sul ghiaccio e
infagottato nei suoi vestiti di pelle che traevano in inganno
l’animale. L’Inuit è sempre stato un cacciatore paziente, capace di
attendere il momento giusto per non rischiare di perdere la preda,
di rimanere nella stessa posizione a lungo per indurre l’animale ad
abbandonare ogni diffidenza: quando è a tiro, scaglia repentino
l’arpione ed assicura così il pasto ai propri cani.
Con l’innovazione tecnologica non sono del tutto scomparse le
antiche tecniche di caccia e gli Inuit ancora gonfiano grosse pelli
di foca come galleggianti da legare all’arpione per sfiancare il
tricheco durante la sua fuga in mare; una volta raggiunta la preda,
i suoi intestini vengono gonfiati per garantirne il galleggiamento
ed un più facile traino verso terra. Sono poi necessarie tutte le
braccia disponibili per tirare il tricheco fuori dall’acqua ed
issarlo sulla barca. Le sue carni si mangiano crude, seguendo una
rigorosa tecnica di taglio e di assegnazione delle parti ai vari
cacciatori intervenuti nella battuta in mare.
Anche
la caccia alla volpe segue le sue regole: appostamenti sulle tane,
cattura della preda e controllo delle pelli impegnano per lunghe
giornate i cacciatori, sempre molto orgogliosi di poter barattare le
bianche e morbide pellicce con prodotti alimentari fino a pochi
decenni prima del tutto sconosciuti, te, caffè e zucchero. Un tempo,
le pelli delle volpi bianche erano utilizzate per realizzare stivali
o indumenti, ma poi sono divenute una preziosa merce di scambio che
ha permesso ai cacciatori di acquistare fucili e munizioni,
imponendo presto radicali cambiamenti nelle abitudini legate alla
caccia.
Quando le giornate di caccia si allungano e si possono dedicare ore
intere a correr dietro alla preda, l’igloo di neve o la casa di
terra diventa indispensabile e conoscere le antiche tecniche di
costruzione, tanto veloci quanto efficaci, costituisce per ogni
cacciatore una garanzia di sopravvivenza, perché altrimenti risulta
impotente di fronte all’inevitabile avanzare del gelo.
Se l’uomo da solo non sa spiegare l’inspiegabile,
allora accorre in suo aiuto l’angakok, lo stregone del villaggio,
saggio e rispettato, non necessariamente anziano ma certamente
potente, capace di conoscere e dominare il cuore degli spiriti,
intermediario insostituibile tra gli uomini e le forze invisibili
della natura.
E’ un documentario davvero molto bello, istruttivo e didattico.
Il francese si lascia intendere facilmente e anche per chi non ha
dimestichezza con la lingua le scene riprese sono di per sé stesse
esplicative ed accattivanti. Aiuta nella comprensione, neanche a
dirlo, la lettura del testo "Gli
ultimi re di Thule".
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