Kabloonak è un film imperdibile per gli appassionati di cultura Inuit!
E’ la storia incredibile ed emozionante della profonda amicizia che lega il
regista di “Nanook of the north”, quel Robert Flaherty che tanti mesi aveva
trascorso tra i ghiacci del Grande Nord per riprendere le abitudini di vita
degli Inuit, ed uno dei cacciatori protagonisti della pellicola, l’eschimese che
aveva interpretato proprio il mitico Nanook.
Personaggi molto particolari, il cacciatore ed il regista stringono subito
un’alleanza che si trasforma presto in reciproca stima e profondo rispetto,
nonostante i limiti culturali e le difficoltà di comprensione.
Lo stravagante regista, che durante le riprese aveva portato con sé persino un
pianoforte ed una vasca da bagno smaltata di bianco, scoprirà che le riprese non
potranno essere portate a compimenti senza la fattiva collaborazione degli Inuit
e che comunque tutto sarà subordinato alla fondamentali esigenze di
sopravvivenza di quel lontano popolo dei ghiacci: quando fiutano l’arrivo delle
foche, gli Inuit sospendono qualunque cosa e si recano a caccia.
Al polo nord un cacciatore Inuit muore.
A New York un uomo entra in un bar, sconvolto, si apparta in un angolo del
locale ed ordina da bere.
E’ il 1922 ed inizia così un lungo flashback.
Il 15 Agosto 1919 un americano di origine irlandese, Robert Flaherty, arriva a
Port Harrison, ai confini della baia di Hudson, in Canada. Tra i suoi bagagli
una macchina da presa a manovella, della pellicola, il necessario per un piccolo
laboratorio di sviluppo e un proiettore.
L’impresa, all’epoca, sembra insensata. I pochi bianchi che si avventurano al
Grande Nord sono dei commercianti. Tra loro e gli Inuit i rapporti sono
semplici: pellicce in cambio di mercanzie varie.
Ma cosa vuole quest’uomo con la sua scatola con l’occhio di vetro?
L’uomo non domanda altro che di condividere la vita degli Inuit, mettendo in
funzione, di tanto in tanto, davanti a loro, quella scatola magica, con il suo
occhio che scruta e riprende.
Flaherty passa un anno nella piccola comunità e manifesta un interesse
appassionato - incomprensibile agli occhi degli Inuit - per i differenti aspetti
della loro vita quotidiana: la costruzione degli igloo, i viaggi sulle slitte
trascinate dai cani, la caccia all’orso, la pesca nei buchi fatti nel
ghiaccio...
È facile immaginare la perplessità, seguita dall’ilarità degli indigeni,
allorché il regista, volendo filmare la vita all’interno dell’igloo, a causa
della scarsa sensibilità della pellicola e dell’impossibilità di usare una fonte
luminosa sotto la calotta di ghiaccio, è costretto a scoperchiare il tetto
dell’abitazione per filmare l’intimità di Nanook e della sua famiglia; nudi
sotto le pelli di animali, soffiando piccole nuvole di fiato, gli Inuit devono
recitare la parte di chi si prepara per la notte.
In una delle nature più belle e più ostili del pianeta si svolgono altri piccoli
aneddoti (la festa di Natale, le proiezioni degli spezzoni girati, i rituali
collettivi) che raccontano spesso di una vita ai limiti della sopportazione, ma
vissuta con gioia e con estrema dignità.
Flaherty e Nanook, in viaggio per alcune settimane per filmare la caccia
all’orso, affrontano temperature di meno 4O gradi in mezzo alla nebbia e tra
continue bufere di vento. Sulla via del ritorno, quasi alla fine delle loro
scorte di petrolio, senza ormai la possibilità di riscaldarsi né di cuocere le
provviste alimentari congelate, i due uomini si sentono condannati a una morte
rapida.
È allora che il regista si ricorda che la pellicola (che contiene, all’epoca,
della nitro-cellulosa particolarmente infiammabile) può costituire del
combustibile provvidenziale. Il film che li stava conducendo a una morte sicura
li salva in extremis.
Ma Nanook non è mai rientrato da una battuta di caccia senza un orso: si sente
umiliato dinanzi al suo popolo e riparte alla volta del Grande Nord; rientra
giusto in tempo, e stavolta con la tanto sospirata preda, per salutare il
regista che si imbarca per rientrare a New York.
Non sarà facile scordare il sorriso della bella Nyla e del piccolo cacciatore
Nanook.
Quando Flaherty riceve un telegramma che lo informa della morte di Nanook («starved
to death in a deer hunt» - ucciso dalla fame durante una battuta di caccia ai
cervi) la sala cinematografica all’angolo proietta proprio il suo film “Nanook
of the north”.
Il cacciatore ed il registra non si incontreranno mai più.
Il film ripercorre le tappe di una grande amicizia, di un grande popolo e di un
grande opera cinematografica.
Per chi ha visto il primo “Nanook of the north” è una pellicola assolutamente
imperdibile!
È più bello di un dietro le quinte, più avvincente di un remake, più convincente
di un sequel... è un grande omaggio ad uno dei più importanti registi
cinematografici e al contempo una ispirata celebrazione di un grande popolo.
Presentato al Montreal World Film Festival nell’agosto del 1994, l’anno della
sua uscita, il film è un condensato di ottima arte cinematografica, dalla regia
alla fotografia, dalla sceneggiatura alla capacità degli attori di richiamare la
distanza tra le culture; il film è conosciuto anche con il titolo di “The
stranger”.
La pellicola sa raccontare bene quanto possa essere goffo ed inadeguato un uomo
bianco tra i ghiacci del Grande Nord e quanto la sua arte, la sua cultura, la
sua raffinata ricerca del bello possano quotidianamente scontrarsi con le rigide
condizioni climatiche del luogo e soprattutto debbano inevitabilmente abdicare
di fronte alle rigorose regole di sopravvivenza delle genti artiche: l’attore
Charles Dance impersona un Robert Flaherty capace di misurarsi con una
dimensione altra e lontana, capace di entrare in sintonia con il popolo Inuit
fino a sposarne una donna dalla quale avrà un figlio, capace di trasporre sulla
pellicola tutta la dolcezza di persone all’apparenza dure e indurite dalla vita.
L’incontro con gli Inuit sarà determinante nella vita del regista e lo sarà per
noi dopo la visione del film!
|