Un
piccolo libretto molto prezioso e di difficile reperibilità in Italia, di
datazione incerta ma di grande valore scientifico ed antropologico, l’unico
dell’autore tradotto in italiano.
Robert Gessain è stato il compagno di Paul-Emile Victor durante la prima
spedizione francese ad Ammassalik, nella costa orientale della Groenlandia, tra
il 1934 ed il 1935. Ha scattato un gran numero di fotografie e raccolto
un’enorme documentazione scientifica.
“Improvvisamente in mezzo ai ghiacci, davanti al battello, si vede apparire un
punto nero che si avvicina; presto si distingue chiaramente un movimenti di
remi; è il primo eschimese che ci viene incontro. Il battello si ferma lungo lo
scafo: due cavi con due nodi scorsoi lo agganciano davanti e dietro e sollevano
insieme battello e uomo”.
Gessain rimane piacevolmente colpito dall'incontro con gli Inuit e non perde
occasione per tessere le lodi di questo popolo ammirevole, capace di vivere in
un ambiente tanto ostile: “Pare davvero che non gli sia toccata troppa fortuna!
Vive l''inverno fra la neve ed il ghiaccio, l'estate su nude rocce; la sua terra
non produce nulla, [...] non ha combustibile naturale, non tessuti, non metalli,
non animali domestici all'infuori del cane. Eppure nella lotta per l'esistenza è
riuscito vincitore! Ha un rifugio caldo durante le notti invernali, i suoi
figlioli sono belli e vigorosi. I vestiti sono veramente confortevoli e ha
saputo con abilità inventare armi che gli permettono di procurarsi, cacciando,
quello di cui ha bisogno: nutrimento, luce, calore. Spirito osservatore e
concreto, sa sopportare le sofferenze in silenzio ed essere ottimista e gaio;
gli piace cantare, s'è fatto un concetto personale del mondo, crede a modo suo
alle forze spirituali e all'immortalità dell'anima”.
La sua stima per il popolo Inuit è immensa e franca: “Vive felice e crede il suo
paese il paese più bello della Terra. Rappresenta il trionfo dell'intelligenza,
dell'abilità, della tenacia umana sulla materia più ostile che esista al mondo”.
E poi ancora: “Di media statura, tarchiati, col viso piatto, con zigomi
sporgenti, capelli neri, hanno piedi e mani piccoli e fini e costituiscono un
blocco razziale che ha la sua propria fisionomia. Psicologicamente, si
riconoscono in tutti questi tratti comuni: noncuranza e rassegnazione di fronte
alle sofferenze imposte dal clima rude e dalla carestia, facilità a immediata
esplosione di gaiezza quando le condizioni migliorano. Inoltre, sono dotati di
spirito d'osservazione e di senso geografico”.
Il libretto, scritto alla metà del secolo scorso, quando il termine non aveva
alcuna accezione negativa, spiega che gli “eschimesi” sono uno dei popoli artici
che abitano le terre che circondano l'Oceano Polare Artico; altri popoli artici
vivono in Siberia: i Ciukci, i Yakuti, i Kariaki, i Tungusi, i Samoiedi e,
nell'Europa settentrionale, i Lapponi. Gessain dedica la sezione conclusiva del
volumetto agli altri popolo Inuit che per condizioni geografiche e zoologiche
hanno sviluppato differenti aspetti culturali e tecnici: gli Eschimesi Polari,
del Labrador, della Terra di Baffin e del Polo Magnetico, gli Eschimesi Caribù,
del Rame, del Mackenzie, dell'Alaska ed i Siberiani.
Il
suo lavoro contiene un’infinità di richiami alle abitudini nomadi degli Inuit di
Ammassalik, analizzate con scrupolosa attenzione durante lo scorrere delle
stagioni. Ogni paragrafo è degno di nota: la fine dell'inverno e la partenza per
il nomadismo estivo, la costruzione della tenda e la sistemazione della dispensa
dentro l'umiak capovolto, la pesca degli ammassat (un pesce che si
raccoglie in branchi nel fiordo di Ammassalik al principio dell'estate e che ha
finito per dare il nome all'intero popolo), la caccia alla foca attraverso l'aglù
(il foro di respirazione), ai salmoni tra le barriere di pietre, all'orso sulla
banchisa; e ancora i lavori delle donne e degli uomini, i giochi dei bambini, la
casa d'inverno e la vita comune, le credenze religiose, i duelli dei canti e l'angakok
(lo sciamano).
E' un piccolo manuale sul popolo Inuit di Ammassalik, sono appena 140 pagine ma
così ricche di dati, notizie curiose ed informazioni da rendere impossibile una
qualsiasi sintesi: per ovviare alla difficoltà, ho scelto di riportare i due
paragrafi dedicati al kayak, così da dare un chiaro esempio della limpida
scrittura dell'autore e del profondo senso di rispetto che trapela da ogni suo
scritto.
“Il
kayak eschimese è uno scafo leggero, costruito individualmente. Nella
tribù non esistono artigiani specializzati e ognuno è capace di fabbricare tutto
quello di cui ha bisogno.
Questo battello da caccia è essenzialmente formato da un telaio di legno, sul
quale sono tese delle pelli di foca. Il legno proviene unicamente dai tronchi
d'albero che l'eschimese trova sulla banchisa e che si chiama legno fluitato.
Sono alberi travolti e sradicati dalla tempesta o abbattuti dagli uomini e
lasciati sulle rive della Norvegia, sotto forma di convogli fluitanti, che dalle
correnti marine vengono trasportai a poco a poco, nel volger di molti anni, fin
sulla costa orientale della Groenlandia.
Questo legname fluitato, che gli eschimesi trovano mentre vanno a caccia,
costituisce per loro una vera preda. Quando un cacciatore scopre uno di questi
tronchi, non continua la caccia; lo prende a rimorchio del suo battello, torna
all'accampamento e non lo adopera mai per riscaldarsi, ma lo considera un
materiale prezioso. Gli eschimesi se ne servono unicamente per farne le aste
delle loro armi e le carcasse dei kayak e degli umiak.
Il telaio del loro battello è ricavato da questi tronchi, tenuti insieme da dadi
e da incastri incavigliati, naturalmente senza chiodi. La lunghezza del
battello, la sua larghezza, l'altezza dello spazio interiore nel quale l'uomo
dovrà infilare le gambe sono valutate a seconda della grandezza e del peso
stesso del cacciatore. E' in questo periodo dell'anno che davanti alle case,
ripulite del loro mantello di neve, si vedono gli eschimesi pazientemente
occupati a tagliare e a riunire le differenti tavole di questa armatura. Sono
abili artigiani e il complesso dei longheroni e delle traverse costituisce un
insieme di straordinaria leggerezza e di grandissima resistenza.”
“Quando
l'ossatura è finita, il lavoro viene affidato alle donne, che debbono stenderci
sopra pelli di grosse foche uccise di fresco, non conciate, ma semplicemente
private del pelo con lo speciale coltello usato appunto dalla donne. Tirando coi
denti, dei quali gli eschimesi si servono come di una terza mano, tendono queste
pelli spesse ed ancora molli e le cuciono con fili intrecciati da loro stessi,
con tendini di foca. Le cuciture sono accuratamente ribattute, per assicurare
l'impermeabilità del rivestimento, e son fatte nello spessore stesso della
pelle, perché il cuoio non sia bucato da parte a parte; infine, ogni cucitura è
accuratamente spalmata di grasso.
Preparato così lo scafo, l'uomo deve finire il lavoro: metterà intorno
all'apertura centrale arrotondata del battello un cerchio di legno, quello che
si chiama <buco d'uomo> [e che oggi chiamiamo mastra del pozzetto – n.d.r.]; lì
il cacciatore dovrà infilare le gambe e attorno a questo legno aggancerà la
tunica da kayak che, chiudendolo al di sotto delle braccia, impedirà che l'acqua
entri nello scafo. Metterà alle due estremità appuntite del kayak due palle di
avorio per proteggerne la parte interna contro gli urti del ghiaccio e tenderà
sul kayak tutto un gioco di cinghie trasversali e longitudinali, e di ganci
d'avorio finemente lavorati con figure di animali o simboli di spiriti tutelari.
Queste cinghie sono destinate a mantenere ciascuna al suo posto le numerosissime
armi che saranno poste sul kayak quando l'eschimese partirà per la caccia.
Sotto la chiglia, taglierà una lunga striscia d'avorio di narvalo che servirà a
proteggerla dallo sfregamento sui ghiacci: perché è uso abituale degli eschimesi
di salire sul kayak quando è in secco, sopra un lastrone di ghiaccio, e di
lasciarsi scivolare in mare dopo aver preso posto nell'interno dello scafo
[anche se la foto mostra una tecnica differente – n.d.r.].
I kayak eschimesi sono i battelli più leggeri e più stretti del mondo. Un kayak
per un cacciatore di una statura presso a poco di mt. 1,60 deve avere mt. 5,75
di lunghezza e cm. 45 di larghezza; l'altezza varia da 14 a 18 cm. nel punto
dove stanno le cosce del cacciatore quando è nel battello”.
Queste misure ci hanno fatto fare un salto sulla poltrona mentre eravamo assorti
nella lettura del manualetto di Gessain: rapportate alle dimensioni dei vari
modelli di kayak moderno (lunghi tutti all'incirca mt. 5,20 e larghi cm. 53,
fatte salve alcune lodevoli eccezioni), quelle misure sembrano essere state
completamente stravolte perché rispetto all'altezza media degli europei, di gran
lunga superiore a quella dei piccoli uomini artici, la lunghezza del kayak si è
accorciata considerevolmente (avrebbe dovuto superare i 6 metri, secondo le
proporzioni adottate dagli Inuit!), mentre la larghezza è forse l'unica misura
ad avere mantenuto una qualche ragionevole affinità con i kayak degli Inuit di
Ammassalik.
”La
caccia in kayak è la preferita dalla maggior parte della tribù. Il cacciatore
che parte esce dalla tenda vestito con scarpe di pelo rasato e pantaloni di
cuoio: ha un anorak di cuoio, spesso un berretto di volpe bianca con la
coda che gli pende sul collo; a volte, invece, un berretto fatto di pelle
d'anatra non spiumata. Se il tempo è bello, non ha attorno a sé che la fascia
circolare di cuoio alta 50 cm. che si chiama <grembiule da kayak> [e che oggi è
internazionalmente conosciuto come paraspruzzi – n.d.r.], una fascetta tenuta da
bretelle ornate di borchie d'avorio. Questo grembiule, come la altre cose di uso
comune, è lavorato con squisita delicatezza; fasce di cuoio bianco, cucite su
pelle nera, vi formano vari disegni. La donna è orgogliosa dell'abbigliamento
del proprio marito.
Se fa brutto tempo, il cacciatore prende il suo kayartsi, vestito
impermeabile [chiamato anche tuilik – n.d.r.] il cui cuoio è stato
conciato nel sangue e che, incappucciandogli il capo, gli si richiude intorno al
viso. E' il vestito che gli permetterà di poter girare in kayak, senza paura che
il battello imbarchi acqua.
Così equipaggiato, il cacciatore ha preso, vicino alla tenda, il kayak che aveva
collocato sopra un appoggio per metterlo al riparo dai cani e dagli orsi: ora
può portarlo facilmente infilando il braccio nel <buco per uomo>. Dall'altra
mano il remo fa equilibrio. Lo porta fino alla riva vicina e, dopo aver
asciugato con cura la suola delle sue kamik contro il bordo della pagaia,
mette i piedi nel <buco per uomo> e infila contemporaneamente le gambe nel
battello, come se infilasse un piede in una scarpa.
Il
suo kayak è attrezzato per la caccia. Ha a destra la fiocina per le foche, a
sinistra e davanti quella per gli uccelli: la lunga striscia di cuoio che porta
attaccato in cima il tsaogata (anche detto avatak) è arrotolata
sopra un piccolo treppiede. Numerosi tamponi di diverso calibro, in legno o in
avorio, sono tenuti fermi da un gioco di cinghie intrecciate [serviranno per
chiudere le ferite inferte alla preda per evitare che perda sangue durante il
trasporto verso riva – n.d.r]. Dopo l'arrivo dei bianchi, un fucile nella sua
custodia ha preso posto in mezzo a questo vero arsenale di armi tradizionali.
Dietro il cacciatore il galleggiante (l'avataq, appunto) forma una grossa
massa gialla, lucente di grasso,
Il kayak scivola silenzioso sul mare calmo, fra gli iceberg. Una specie di
paravento bianco posto a prua fa sì che la foca lo creda un qualunque frammento
di ghiacci e il cacciatore erra spesso lunghe ore prima di trovare una preda
[...]”
Con questi sistemi ingegnosi di caccia in kayak, gli Inuit di Ammassalik erano
in grado di assicurare alla propria famiglia cibo sufficiente per sopravvivere,
anche se durante l'inverno la banchisa ghiacciata rendeva impossibile gli
spostamenti in mare e molto più difficile la cattura delle foche, tanto che
intere famiglie non riuscivano talvolta a superare i lunghi mesi di carestia
indotti da stagioni particolarmente rigide.
Gli
Inuit non hanno mai minacciato il fragile equilibrio artico e sono stati
costretti a passare dalla caccia alle balene a quella alle foche soltanto sul
finire del XIX secolo, quando le prime erano state sterminate in pochi anni dai
balenieri europei. Il “popolo delle foche”, come è stato definito da Paul-Emile
Victor, compagno di spedizione di Gessain, non avrebbe dovuto soffrire
l'umiliazione delle rigide regole, sempre europee, imposte per la tutela dei
mammiferi marini, perché loro sono stati gli unici capaci di rispettare il
patrimonio naturale della loro terra...
Ah, ah, ah!
Bello il kayak che scivola
senza rumore sulla grande distesa!
Bello il kayak che scivola
e la fiocina che vola leggera!
La foca muore,
foca troppo curiosa,
testina tonda troppo curiosa,
giallo il grasso che fonde in bocca
ah, ah, ah, ia, ia!
(canto col tamburo di un vecchio cacciatore Inuit di Ammassalik raccolto da
Gessain – pag. 74)
Robert Gessain (1907–1986) era un medico, antropologo, etnologo ed
inuitologo francese, professore al Museo nazionale di storia naturale, direttore
del Musée de l'Homme di Parigi e vice presidente dell'Unesco.
Ha fatto parte della spedizione francese inviata dal Musée de l'Homme ad
Ammassalik in Groenlandia nel 1934-35 a bordo del "Pourquoi-Pas?" insieme
all'ingegnere-antropologo Paul-Emile Victor, al cineasta Fred Matter e al
geologo Michel Perez. L'anno successivo, cioè nel 1936, sempre con Victor e
Perez, realizza la traversata della calotta glaciale della Groenlandia da Ovest
ad Est. Da allora, non ha mai smesso di tornare ad Ammassalik per studiare la
popolazione, riportando in Francia preziosi documenti scientifici sugli Inuit
della costa orientale groenlandese. Una delle sue più strette collaboratrici,
Joelle Robert-Lamblin ha collaborato con Paul-Emile Victor alla stesura dei due
corposi lavori bibliografici su “La
civilisation du phoque”.
Nel 1965 i coniugi Gessain hanno vinto il primo premio ex equo alla sesta
edizione del Festival dei Popoli di Firenze, giunto quest'anno alla sua 53°
edizione (!), con un film-documentario su “Les enfants du camaleon”.
Robert Gessain ha pubblicato numerosi lavori sull'antropologia, l'etnologia e la
demografia degli abitanti di Ammassalik ma questo è il suo unico testo tradotto
in italiano. La sua bibliografia annovera, tra molti articoli scientifici (http://www.arctickayaks.com/PDF/Gessain1968/gessain-pt1.htm),
anche altri interessanti volumi: “Ammassalik
ou la civilisation obligatoire” del 1969, “Ovibos, la grande aventure des
hommes et des bœufs musqés” del 1981 ed “Un homme marche devant” del 1989. Di
facile reperibilità su internet è anche una più recente raccolta fotografica
pubblicata nel 2007 col titolo “Inuit
– Images d'Ammassalik – Groenland 1934-1936” in cui sono state riprodotte in
grande formato molte delle fotografie scattate da Gessain durante la sua prima
permanenza in Groenlandia e che pure corredano questo piccolo prezioso libretto.
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