TATIYAK - letture

Groenlandia
Tradizione, storia e cambiamento culturale delle popolazioni eschimesi

Mario Marchiori – Casa Editrice Thilger – Genova - 1978

Scheda del 21 marzo 2012 a cura di Tatiana Cappucci

Un volume datato ma di grande attualità.
Scritto con un tono leggero e sapiente, in un linguaggio semplice per una lettura scorrevole, sembra quasi un racconto fatto intorno al tavolo, con la voce dell'autore che spiega la storia passata e recente del popolo Inuit. Lo stile dotto non disturba, anzi appassiona. E' una dote rara, quella di rendere chiare le cose complesse, una qualità che pochi studiosi posseggono e che è invece il tratto distintivo di Marchiori.
Il tomo di 200 pagine si legge volentieri ed in pochi giorni, complice la struttura tripartita che richiama il sottotitolo: la cultura tradizionale, le origini e la trasformazione culturale di un popolo sottoposto in pochi decenni ad un irreversibile cambiamento epocale, seppur mediato dalla illuminata politica socio-economica della Danimarca.
La ricerca di Marchiori non è derivata da un'esperienza diretta sul campo ma l’analisi della piccola comunità di Ammassalik, sulla costa orientale della Groenlandia, pare non avere serbato alcun segreto per uno dei più illustri inuitologi italiani. La linguistica dell’epoca aveva adottato il termine “eschimese” senza alcuna accezione negativa o dispregiativa, come del resto negli studi francesi, danesi ed anglosassoni, e si è pertanto mantenuta la medesima definizione nelle citazioni dirette dell’opera e nelle definizioni dei periodi storici.
Poche foto, riportate anche nella scheda, corredano le fitte pagine del volume.

Il lavoro si concentra sullo studio degli Inuit polari, il popolo che vive tra il 78° ed il 55° di latitudine nord (dal distretto di Thule in Groenlandia sino alla Baia di Hudson) e tra il 20° e il 180° di longitudine (dalle coste orientali della Groenlandia sino a Capo Est della Siberia).
Il capitolo introduttivo sulla cultura tradizionale Inuit è ricco di informazioni scientifiche e considerazioni colte su economia, struttura sociale e politica, religione e canoni morali.
La competenza con cui vengono affrontati i singoli argomenti mette in risalto aspetti talvolta poco valorizzati delle comunità artiche: gli Inuit vantavano un egoismo familiare durante la vita estiva che li portava a considerare beni di esclusiva proprietà nucleare soltanto il kayak, l'umiak, la slitta, le armi, la lampada, la tenda e le pelli; in inverno, invece, un largo collettivismo ed un diritto comunitario che si estendeva al suolo, alle grandi case comuni, agli sbarramenti di pietra per la pesca al salmone, alla caccia al caribù prima, alla balena poi ed infine alla foca. “Una famiglia non doveva possedere più di una certa quantità di ricchezza, non poteva ricevere in eredità beni di cui era già dotata ed aveva l'obbligo di dare ai poveri il sovrappiù, sia come scambio rituale di doni, sia come regali agli omonimi degli antenati morti, sia come distribuzione ai ragazzi”. Inoltre, menzogna ed evasività non erano comuni tra la maggior parte degli Inuit ed erano anzi abitudini soggette a disapprovazione e a sanzioni morali: il valore positivo era invece la sincerità, “estensione del valore attribuito alla divisione ed alla distribuzione dei beni materiali: infatti, oltre a questi ultimi, erano condivise pure le informazioni, le emozioni e le aspirazioni”. Ogni notizia utile alla sopravvivenza veniva condivisa, dagli spostamenti degli animali alle condizioni dell'ambiente, poiché la mancanza di franchezza avrebbe finito non solo per creare diffidenza ma anche per minare la coesione sociale del gruppo.
Gli aggregati Inuit non potevano essere definiti propriamente delle “tribù”, perché mancavano loro le caratteristiche specifiche di unità di lingua e di territorio, di un nome definito, delle frontiere e delle guerre tribali per difenderle (i primi due o tre aspetti potrebbero anche indurre a considerare i primi Inuit come delle tribù nomadi, ma è sugli altri punti che si infrange la classificazione). Forse più propriamente si potrebbe parlare di “clan” (luogo in cui non v'è vendetta di sangue) perché si trattava di individui uniti da un legame particolare che vivevano nello stesso insediamento, senza unità territoriale o politica. E questo spiegherebbe anche alcuni tratti caratteriali tipici degli Inuit, la mitizza, l'affidabilità e la bassa aggressività, contenuta con i duelli dei canti e dei tamburi e con lo scambio delle donne.
Un ambiente protettivo e gratificante accompagnava i bambini dalla nascita sino all'adolescenza, dal momento cioè in cui venivano presentati al mare (la madre immergeva le dita nell'acqua, le passava sulle labbra del bambino e subito gli assegnava un nome) sino a quello in cui i ragazzi potevano indossare il perizoma (natit) e la ragazze legarsi i capelli in un alto chignon. “Del resto, un ego molto forte ed un elevato senso di sicurezza erano qualità indispensabili per affrontare, nella più completa solitudine della caccia in kayak o in slitta, un ambiente ostile e delle condizioni climatiche sovente proibitive”.

Il capitolo centrale dedicato alle origini dei primi Inuit intreccia studi di etnologia, archeologia e geologia per riassumere le vari ipotesi legate al mistero della nascita della cultura Inuit.
Prima ancora di affrontare i tratti distintivi della cultura Dorset e Thule, l'autore si sofferma sulla preistoria degli Eschimesi Caribù, popolo ora estinto che aveva preso il nome dall'animale dal quale traeva sostentamento: carne per il nutrimento, pelli per le tende e gli abiti, corna per le armi e gli utensili. L'analisi dei periodi cosiddetti Proto, Paleo e Neo-Eschimese è condotta con estrema chiarezza e permette di comprendere come le leggende Inuit raccontassero, nella loro ingenuità, una verità storica innegabile, cioè l'origine euro-asiatica delle popolazioni Inuit e la loro emigrazione verso est attraverso lo Stretto di Bering durante uno dei tre periodi glaciali del continente americano (risalenti a 40-35.000, 28-25.000, 23.000 e 10.000 anni fa).
“Molto tempo fa, si dice che non v'era altro che acqua, niente terra del tutto. Ciò cominciava a disturbare il Corvo. Allora egli vide le radici di alcuni ciuffi d'era che galleggiavano da quelle parti e si mise a caccia. Si avvicinò ad un ciuffo pagaiando, lo prese con il becco, lo circondò con una corda e lo trascinò fino alla costa. Poi riprese il suo kayak e continuò a cercare ed a beccare le radici delle erbe e ad accumularle accanto alle prime. Ed è così che fu la terra [...] E quando il corvo ebbe fatta abbastanza terra radunò gli uomini e disse loro: ecco, voi avete ora una terra per vivere! Ed è così che noi siamo venuti qui al principio”.
Sono ormai tutti concordi nel sostenere che Inuit ed Aleutini discendono da gruppi razziali artico-mongoli che dapprima cacciavano nell'interno e poi si adattarono gradualmente alla vita sulla costa, forse in seguito ai mutamenti climatici e alla scomparsa dei grandi erbivori.
Interessante è la teoria della “spiagge in serie” elaborata da Louis J. Giddins, che scavò nel 1958 ben 114 spiagge ad una distanza dal mare molto variabile e ad una profondità compresa tra i 2,5 ed i 5 chilometri. Nel corso dei millenni, alle antiche spiagge se ne erano sovrapposte altre e a causa degli agenti atmosferici il litorale si era allontanato dai primi insediamenti. Le “spiagge in serie” testimoniano di una graduale migrazione verso oriente dall'Alaska all'alto Yukon alle regioni artiche americane alla Baia di Hudson alla Terra di Ellesmere fino alla lontana Groenlandia settentrionale, raggiunta circa 4700 anni fa.
I primi nuclei della popolazione definita della “Tradizione artica dei piccoli utensili” vi giunse seguendo la “via del bue muschiato”, che pure migrava verso est in cerca di nuovi pascoli; cominciarono a cacciare anche foche e trichechi e mantennero sia influenze culturali indiane (forbici e punte di frecce scanalate) che di matrice euro-asiatica (utensili in pietra sono stati ritrovati anche nei siti forestali della Siberia, nelle steppe della Mongolia e persino nei giacimenti paleolitici dell'Europa settentrionale!).
Forse i Proto-Eschimesi tentarono di spingersi verso sud, prima di migrare ad est, ma si scontrarono nella regione alascana meridionale con tribù indiane piuttosto ostili che li respinsero verso nord, oltre il limite delle foreste, che da allora (circa 10-8.000 anni fa) ha rappresentato il confine reciprocamente rispettato tra i territori indiano e polare, una sorta di terra di nessuno dove leggende, racconti storici e reperti archeologici testimoniano che “le dure leggi della sopravvivenza dovevano regnare sovrane”.
La fase Proto-Eschimese si sviluppò così in Groenlandia nell'arco di almeno 4.000 anni, con una serie di stadi culturali che si sovrapposero ininterrottamente fino alla fine del primo millennio avanti Cristo, quando fece la sua comparsa la successiva fase Paleo-Eschimese.
Oltre al bue muschiato, i Paleo-Eschimesi cacciavano anche foca e tricheco, con arco, frecce, giavellotti ed arpioni, e si spostavano con umiak e kayak (ma ancora senza slitte) lungo tutto il perimetro groenlandese, scendendo verso sud fino alla punta estrema di Capo Farewell e risalendo lungo le coste orientali fino alla regione di Ammassalik, “dove la loro forza espansiva si estinse”. Così avvenne che l'intero perimetro della più grande isola del mondo risultò completamente esplorato da popolazioni che si spostavano per mare unicamente con piccoli battelli in legno e pelle...

Il deterioramento del clima che si verificò circa 2500 anni fa, causò forse l'estinzione dei Proto-Eschimesi ma influenzò in maniera differente la cosiddetta cultura Dorset, quel nuovo popolo che comparve nel Canada Artico tra il 1000 e l'800 a.C. cui gli archeologi diedero il nome del luogo in cui avvennero i primi ritrovamenti: Capo Dorset, nel nord della Baia di Hudson.
Mentre i Dorset furono di razza Inuit e di lingua aleutina, “un popolo terribile, intenso, severo, pensoso, mistico, credulo e superstizioso”, portatore di una cultura materiale ancora primitiva di case semi interrate, di armi rudimentali, di kayak imperfetti impiegati per la pesca sui laghi ed i fiumi, i Thule per contro erano un “nuovo popolo di razza e di lingua eschimoide” partito dalla regione sud-occidentale dell'Alaska intorno al 900 d.C. e capace di prosperare fino al 1300 d.C. per la potente vitalità e l'avanzata tecnologia. Definito un popolo “prudente, osservatore, pieno di fantasia, astuto, coraggioso e resistente”, ha saputo mantenere invariati nei secoli questi caratteri sociali, che sono propri anche degli Inuit moderni.
I Thule furono i primi a raggiungere la massima perfettibilità del kayak e a perfezionare una tecnica altamente specializzata di caccia alla balena, che divenne l'animale del totale sostentamento al posto del caribù e prima della foca: quando i Thule incontrarono i primi balenieri europei, che avviarono una caccia indiscriminata alla balena sino a decretarne la quasi estinzione, dovettero nuovamente modificare le loro abitudini e sostituire la balena con la foca, dando vita a quella “civilisation du phoque” così definita dall’esploratore francese Paul-Emile Victor che ha resistito fino al principio del secolo scorso.
Per uno strano gioco di “diffusione culturale circumterrestre” fu proprio l'Europa di Erik il Rosso a venire in contatto con quei primi uomini polari che passando lo Stretto di Bering si erano spinti sino ad Ammassalik. I contatti con i coloni norvegesi dovettero però presto trasformarsi da frequenti scambi commerciali in aperte ostilità, che decretarono la subitanea scomparsa delle numerose comunità vichinghe (nell'occidentale Godthaab si insediarono 90 fattorie e 4 chiese, nell'orientale Julianehaab ben 190 fattorie, 12 chiede e due monasteri, per un totale di 4000 individui intorno all'anno Mille). Lo studioso Jarred Diamond, diversi anni dopo Marchiori, ha ipotizzato  nel suo studio "Collasso" che i coloni vichinghi siano scomparsi per cinque fattori interconnessi: danni ambientali, cambiamenti climatici, vicini ostili, perdita di contatti con la madrepatria ed un atteggiamento conservatore della società, che impedì ai nuovi Groenlandesi di adattarsi alla vecchia Groenlandia.
Di fatto, in questa remota località groenlandese cui noi siamo particolarmente affezionati, Ammassalik, arrivarono sia i primi Proto-Eschimesi procedendo da nord, intorno al 1000-800 a.C., e sia i rappresentanti della cultura Thule che risalivano da sud, intorno al 1400-1500 d.C.: si verificò pertanto un evento unico nel suo genere, perché se fino ad allora le fasi culturali si erano sovrapposte le une alle altre, in quel momento “si assisteva all'incontro di due culture appartenenti allo stesso ceppo etnico ma provenienti da due direzioni diametralmente opposte”.
“Ebbe così origine quel particolare sincretismo culturale che prese il nome di “Cultura mista della Groenlandia nord-orientale", la cui scomparsa avvenne nel XIX secolo in concomitanza con una piccola era glaciale che mise in fuga gli ultimi caribù e deteriorò le condizioni climatiche oltre le soglie critiche della sopravvivenza, tanto che i piccoli insediamenti divennero sempre più isolati gli uni dagli altri e gli ultimi abitanti si concentrano proprio nella regione di Ammassalik”.

La conclusione dell’analisi di Marchiori è amara ma di forte attualità, almeno per il suo tempo: la pubblicazione risale al 1978 e vengono richiamati i risultati di incontri e convegni tenuti pochi anni prima, come il Terzo Simposio di Medicina Circumpolare del 1974 a Yellowknife in Canada.
Quando la Groenlandia entra nella storia contemporanea, decreta la lenta ed inesorabile assimilazione della cultura Dorset e Thule a quella europea e danese. L’introduzione della armi da fuoco ha inciso non solo sulle tecniche di caccia ma anche sull’incremento demografico (per il basso tasso di mortalità maschile); l’avvento dei motori ha sostituito slitte e kayak ed i pescherecci seguono ormai i grandi banchi di merluzzo più che le tradizionali battute ai mammiferi marini; il tentativo di installare attività produttive estranee alla cultura Inuit (agricoltura e allevamento di renne e pecore) è risultato fallimentare per le avverse condizioni climatiche ma anche per la difficoltà di imporre un’occupazione stabile non più regolata dalle stagioni. Nelle estrazioni minerarie che presero piede nel territorio artico, ricco di uranio, nikel, rame, zinco, piombo, oltre che di petrolio, capitava spesso di dover sospendere le attività estrattive perché gli operai Inuit avevano avvistato branchi di beluga ed erano partiti per la caccia!
Inoltre, le inevitabili trasformazioni culturali hanno inciso non solo sulla salute ma anche sulle abitudini sociali: si sono registrati aumenti preoccupanti di carie dentarie, colesterolo, ipertensione, arteriosclerosi e miopia, quest’ultima salita addirittura del 65% tra i bambini Inuit che avevano frequentato i collegi danesi, e non per l’aumento della scolarità quanto piuttosto per il cambiamento di abitudini alimentari, oltre che di esposizione al sole.
Considerazioni analoghe, ed anche più dure, vengono fatte a proposito dei tratti distintivi della società Inuit: sono cambiati in pochi decenni il senso di ospitalità, il principio dell’adozione dei minori, il rispetto dell’anzianità, i valori della sessualità e della spiritualità, persino la moda e l’abbigliamento. Marchiori registra negli anni Settanta una costante ed inarrestabile decomposizione del tessuto sociale ed individuale ed una preoccupante deriva dei singoli e del gruppo, con l’aumento dell’aggressività, dei suicidi e degli omicidi, della prostituzione e dell’alcoolismo, del tabagismo e del gioco d’azzardo. Tutti fattori che con l'ingresso nel Ventunesimo secolo sono peggiorati ulteriormente.
Ma chiude la sua lunga ed approfondita analisi con un soffio di speranza: la capacità di autodeterminazione che gli Inuit groenlandesi possono ancora valorizzare può traghettarli nel nuovo millennio senza altri strappi culturali, grazie anche alla lungimirante politica sociale danese e alla tollerante evangelizzazione luterana che, pur con macroscopici errori, hanno permesso alla madre-patria di tutelare la ex-colonia dei “Danesi del Nord” dall’assalto devastante della civiltà contemporanea. L’autore non poteva prevedere che il processo così innescato avrebbe determinato una forte spinta autonomista, sfociata nel referendum del 1982 per l’uscita dalla Comunità Europea (in cui la Danimarca era entrata nel 1973 sebbene il 70% dei groenlandesi avesse voltato no) ed in quello del 2008 per l'autodeterminazione della Groenlandia dalla Danimarca, passato con il 75% di voti favorevoli. E’ una lunga strada irta di difficoltà, quella della completa autonomia groenlandese, ma di fronte ad un cambiamento epocale che sta coinvolgendo un intero popolo, possono giocare un ruolo positivo, suggeriva Marchiori ancora nel 1978, il bilinguismo ed il biculturalismo, lo sviluppo economico dell’artico ed il rapporto con l’ambiente non più concepito come appropriazione (capitalista ed imperialista) ma come rispetto ed alleanza. Purché si passi da una acculturazione “subita” ad una acculturazione “intraprendente”, si elabori una “accettazione dinamica del processo di cambiamento” e si consideri come “nessuna persona è disposta a prendere parte ad uno sviluppo con il quale non può o non vuole identificarsi perché ispirato a valori diversi dai suoi”.
Dopo oltre trent’anni, questi suoi scritti sono ancora molto attuali.

Mario Marchiori è nato a Genova nel 1928. Oltre ad essere stato il direttore del Museo Polare Etnografico “Silvio Zavatti” di Fermo è stato un illustre studioso di popoli artici e per anni ha collaborato con il Centre d’Etudes Arctiques di Parigi, collegato al Centre Nationale de la Recherche Scientifique. La sua bibliografia riassunta sulla quarta di copertina si ferma al 1977, anno di pubblicazione dei suoi ultimi articoli sulle riviste scientifiche specializzate, ma la prefazione di Jean Malourie al testo pubblicato nel 1978 tradisce un profondo legame con gli studiosi francesi: “Mario Marchiori è, senza alcun dubbio, con Silvio Zavatti, direttore dell’Istituto Geografico Polare [poi divenuto Museo Polare Etnografico “Silvio Zavatti”, n.d.r.], uno degli esponenti di una nuova generazione di italiani dallo spirito aperto ed acuto, che sono interessati ai problemi di sociologia e di economia politica dell’Artico. Il suo libro è il primo importante studio scritto da un italiano che compare sui problemi contemporanei groenlandesi”.
 

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