Un volume datato ma di grande attualità.
Scritto con un tono leggero e sapiente, in un linguaggio semplice per una
lettura scorrevole, sembra quasi un racconto fatto intorno al tavolo, con la
voce dell'autore che spiega la storia passata e recente del popolo Inuit. Lo
stile dotto non disturba, anzi appassiona. E' una dote rara, quella di rendere
chiare le cose complesse, una qualità che pochi studiosi posseggono e che è
invece il tratto distintivo di Marchiori.
Il tomo di 200 pagine si legge volentieri ed in pochi giorni, complice la
struttura tripartita che richiama il sottotitolo: la cultura tradizionale, le
origini e la trasformazione culturale di un popolo sottoposto
in pochi decenni
ad un irreversibile cambiamento epocale, seppur mediato dalla illuminata
politica socio-economica della Danimarca.
La ricerca di Marchiori non è derivata da un'esperienza diretta sul campo ma
l’analisi della piccola comunità di Ammassalik, sulla costa orientale della
Groenlandia, pare non avere serbato alcun segreto per uno dei più illustri
inuitologi italiani. La linguistica dell’epoca aveva adottato il termine
“eschimese” senza alcuna accezione negativa o dispregiativa, come del resto
negli studi francesi, danesi ed anglosassoni, e si è pertanto mantenuta la
medesima definizione nelle citazioni dirette dell’opera e nelle definizioni dei
periodi storici.
Poche foto, riportate anche nella scheda, corredano le fitte pagine del volume.
Il
lavoro si concentra sullo studio degli Inuit polari, il popolo che vive tra il
78° ed il 55° di latitudine nord (dal distretto di Thule in Groenlandia sino
alla Baia di Hudson) e tra il 20° e il 180° di longitudine (dalle coste
orientali della Groenlandia sino a Capo Est della Siberia).
Il capitolo introduttivo sulla cultura tradizionale Inuit è ricco di
informazioni scientifiche e considerazioni colte su economia, struttura sociale
e politica, religione e canoni morali.
La competenza con cui vengono affrontati i singoli argomenti mette in risalto
aspetti talvolta poco valorizzati delle comunità artiche: gli Inuit vantavano un
egoismo familiare durante la vita estiva che li portava a considerare beni di
esclusiva proprietà nucleare soltanto il kayak, l'umiak, la slitta, le
armi, la lampada, la tenda e le pelli; in inverno, invece, un largo
collettivismo ed un diritto comunitario che si estendeva al suolo, alle grandi
case comuni, agli sbarramenti di pietra per la pesca al salmone, alla caccia al
caribù prima, alla balena poi ed infine alla foca. “Una famiglia non doveva
possedere più di una certa quantità di ricchezza, non poteva ricevere in eredità
beni di cui era già dotata ed aveva l'obbligo di dare ai poveri il sovrappiù,
sia come scambio rituale di doni, sia come regali agli omonimi degli antenati
morti, sia come distribuzione ai ragazzi”. Inoltre, menzogna ed evasività non
erano comuni tra la maggior parte degli Inuit ed erano anzi abitudini soggette a
disapprovazione e a sanzioni morali: il valore positivo era invece la sincerità,
“estensione del valore attribuito alla divisione ed alla distribuzione dei beni
materiali: infatti, oltre a questi ultimi, erano condivise pure le informazioni,
le emozioni e le aspirazioni”. Ogni notizia utile alla sopravvivenza veniva
condivisa, dagli spostamenti degli animali alle condizioni dell'ambiente, poiché
la mancanza di franchezza avrebbe finito non solo per creare diffidenza ma anche
per minare la coesione sociale del gruppo.
Gli aggregati Inuit non potevano essere definiti
propriamente delle
“tribù”, perché mancavano loro le caratteristiche specifiche di unità di
lingua e di territorio, di un nome definito, delle frontiere e delle guerre
tribali per difenderle (i primi due o tre aspetti potrebbero anche indurre a
considerare i primi Inuit come delle tribù nomadi, ma è sugli altri punti che si
infrange la classificazione). Forse più propriamente si potrebbe parlare di
“clan” (luogo in cui non v'è vendetta di sangue) perché si trattava di individui
uniti da un legame particolare che vivevano nello stesso insediamento, senza
unità territoriale o politica. E questo spiegherebbe anche alcuni tratti
caratteriali tipici degli Inuit, la mitizza, l'affidabilità e la bassa
aggressività, contenuta con i duelli dei canti e dei tamburi e con lo scambio
delle donne.
Un ambiente protettivo e gratificante accompagnava i bambini dalla nascita sino
all'adolescenza, dal momento cioè in cui venivano presentati al mare (la madre
immergeva le dita nell'acqua, le passava sulle labbra del bambino e subito gli
assegnava un nome) sino a quello in cui
i ragazzi
potevano indossare il perizoma (natit) e la ragazze legarsi i capelli in
un alto chignon. “Del resto, un ego molto forte ed un elevato senso di sicurezza
erano qualità indispensabili per affrontare, nella più completa solitudine della
caccia in kayak o in slitta, un ambiente ostile e delle condizioni climatiche
sovente proibitive”.
Il
capitolo centrale dedicato alle origini dei primi Inuit intreccia studi di
etnologia, archeologia e geologia per riassumere le vari ipotesi legate al
mistero della nascita della cultura Inuit.
Prima ancora di affrontare i tratti distintivi della cultura Dorset e Thule,
l'autore si sofferma sulla preistoria degli Eschimesi Caribù, popolo ora estinto
che aveva preso il nome dall'animale dal quale traeva sostentamento: carne per
il nutrimento, pelli per le tende e gli abiti, corna per le armi e gli utensili.
L'analisi dei periodi cosiddetti Proto, Paleo e Neo-Eschimese è condotta con
estrema chiarezza e permette di comprendere come le leggende Inuit
raccontassero, nella loro ingenuità, una verità storica innegabile, cioè
l'origine euro-asiatica delle popolazioni Inuit e la loro emigrazione verso est
attraverso lo Stretto di Bering durante uno dei tre periodi glaciali del
continente americano (risalenti a 40-35.000, 28-25.000, 23.000 e 10.000 anni
fa).
“Molto tempo fa, si dice che non v'era altro che acqua, niente terra del tutto.
Ciò cominciava a disturbare il Corvo. Allora egli vide le radici di alcuni
ciuffi d'era che galleggiavano da quelle parti e si mise a caccia. Si avvicinò
ad un ciuffo pagaiando, lo prese con il becco, lo circondò con una corda e lo
trascinò fino alla costa. Poi riprese il suo kayak e continuò a cercare ed a
beccare le radici delle erbe e ad accumularle accanto alle prime. Ed è così che
fu la terra [...] E quando il corvo ebbe fatta abbastanza terra radunò gli
uomini e disse loro: ecco, voi avete ora una terra per vivere! Ed è così che noi
siamo venuti qui al principio”.
Sono ormai tutti concordi nel sostenere che Inuit ed Aleutini discendono da
gruppi razziali artico-mongoli che dapprima cacciavano nell'interno e poi si
adattarono gradualmente alla vita sulla costa, forse in seguito ai mutamenti
climatici e alla scomparsa dei grandi erbivori.
Interessante è la teoria della “spiagge in serie” elaborata da Louis J. Giddins,
che scavò nel 1958 ben 114 spiagge ad una distanza dal mare molto variabile e ad
una profondità compresa tra i 2,5 ed i 5 chilometri. Nel corso dei millenni,
alle antiche spiagge se ne erano sovrapposte altre e a causa degli agenti
atmosferici il litorale si era allontanato dai primi insediamenti. Le “spiagge
in serie” testimoniano di una graduale migrazione verso oriente dall'Alaska
all'alto Yukon alle regioni artiche americane alla Baia di Hudson alla Terra di
Ellesmere fino alla lontana Groenlandia settentrionale, raggiunta circa 4700
anni fa.
I primi nuclei della popolazione definita della “Tradizione artica dei piccoli
utensili” vi giunse seguendo la “via del bue muschiato”, che pure migrava verso
est in cerca di nuovi pascoli; cominciarono a cacciare anche foche e trichechi e
mantennero sia influenze culturali indiane (forbici e punte di frecce scanalate)
che di matrice euro-asiatica (utensili in pietra sono stati ritrovati anche
nei siti forestali della Siberia, nelle steppe della Mongolia e persino nei
giacimenti paleolitici dell'Europa settentrionale!).
Forse i Proto-Eschimesi tentarono di spingersi verso sud, prima di migrare ad
est, ma si scontrarono nella regione alascana meridionale con tribù indiane
piuttosto ostili che li respinsero verso nord, oltre il limite delle foreste,
che da allora (circa 10-8.000 anni fa) ha rappresentato il confine
reciprocamente rispettato tra i territori indiano e polare, una sorta di terra
di nessuno dove leggende, racconti storici e reperti archeologici testimoniano
che “le dure leggi della sopravvivenza dovevano regnare sovrane”.
La fase Proto-Eschimese si sviluppò così in Groenlandia nell'arco di almeno
4.000 anni, con una serie di stadi culturali che si sovrapposero
ininterrottamente fino alla fine del primo millennio avanti Cristo, quando fece
la sua comparsa la successiva fase Paleo-Eschimese.
Oltre al bue muschiato, i Paleo-Eschimesi cacciavano anche foca e tricheco, con
arco, frecce, giavellotti ed arpioni, e si spostavano con umiak e kayak (ma
ancora senza slitte) lungo tutto il perimetro groenlandese, scendendo verso sud
fino alla punta estrema di Capo Farewell e risalendo lungo le coste orientali
fino alla regione di Ammassalik, “dove la loro forza espansiva si estinse”. Così
avvenne che l'intero perimetro della più grande isola del mondo risultò
completamente esplorato da popolazioni che si spostavano per mare unicamente con
piccoli battelli in legno e pelle...
Il
deterioramento del clima che si verificò circa 2500 anni fa, causò forse
l'estinzione dei Proto-Eschimesi ma influenzò in maniera differente la
cosiddetta cultura Dorset, quel nuovo popolo che comparve nel Canada Artico tra
il 1000 e l'800 a.C. cui gli archeologi diedero il nome del luogo in cui
avvennero i primi ritrovamenti: Capo Dorset, nel nord della Baia di Hudson.
Mentre i Dorset furono di razza Inuit e di lingua aleutina, “un popolo
terribile, intenso, severo, pensoso, mistico, credulo e superstizioso”,
portatore di una cultura materiale ancora primitiva di case semi interrate, di
armi rudimentali, di kayak imperfetti impiegati per la pesca sui laghi ed i
fiumi, i Thule per contro erano un “nuovo popolo di razza e di lingua eschimoide”
partito dalla regione sud-occidentale dell'Alaska intorno al 900 d.C. e capace
di prosperare fino al 1300 d.C. per la potente vitalità e l'avanzata tecnologia.
Definito un popolo “prudente, osservatore, pieno di fantasia, astuto, coraggioso
e resistente”, ha saputo mantenere invariati nei secoli questi caratteri
sociali, che sono propri anche degli Inuit moderni.
I Thule furono i primi a raggiungere la massima perfettibilità del kayak e a
perfezionare una tecnica altamente specializzata di caccia alla balena, che
divenne l'animale del totale sostentamento al posto del caribù e prima della
foca: quando i Thule incontrarono i primi balenieri europei, che avviarono una
caccia indiscriminata alla balena sino a decretarne la quasi estinzione,
dovettero nuovamente modificare le loro abitudini e sostituire la balena con la
foca, dando vita a quella “civilisation
du phoque” così definita dall’esploratore francese Paul-Emile Victor che ha
resistito fino al principio del secolo scorso.
Per uno strano gioco di “diffusione culturale circumterrestre” fu proprio
l'Europa di Erik il Rosso a venire in contatto con quei primi uomini polari che
passando lo Stretto di Bering si erano spinti sino ad Ammassalik. I contatti con
i coloni norvegesi dovettero però presto trasformarsi da frequenti scambi
commerciali in aperte ostilità, che decretarono la subitanea scomparsa delle
numerose comunità vichinghe (nell'occidentale Godthaab si insediarono 90
fattorie e 4 chiese, nell'orientale Julianehaab ben 190 fattorie, 12 chiede e
due monasteri, per un totale di 4000 individui intorno all'anno Mille). Lo
studioso Jarred Diamond,
diversi anni dopo Marchiori,
ha ipotizzato nel suo studio "Collasso"
che i coloni vichinghi siano scomparsi per cinque fattori interconnessi: danni
ambientali, cambiamenti climatici, vicini ostili, perdita di contatti con la
madrepatria ed un atteggiamento conservatore della società, che impedì ai nuovi
Groenlandesi di adattarsi alla vecchia Groenlandia.
Di fatto, in questa remota località groenlandese cui noi siamo particolarmente
affezionati, Ammassalik, arrivarono sia i primi Proto-Eschimesi procedendo da
nord, intorno al 1000-800 a.C., e sia i rappresentanti della cultura Thule che
risalivano da sud, intorno al 1400-1500 d.C.: si verificò pertanto un evento
unico nel suo genere, perché se fino ad allora le fasi culturali si erano
sovrapposte le une alle altre, in quel momento “si assisteva all'incontro di due
culture appartenenti allo stesso ceppo etnico ma provenienti da due direzioni
diametralmente opposte”.
“Ebbe così origine quel particolare sincretismo culturale che prese il nome di
“Cultura mista della Groenlandia nord-orientale", la cui scomparsa avvenne nel
XIX secolo in concomitanza con una piccola era glaciale che mise in fuga gli
ultimi caribù e deteriorò le condizioni climatiche oltre le soglie critiche
della sopravvivenza, tanto che i piccoli insediamenti divennero sempre più
isolati gli uni dagli altri e gli ultimi abitanti si concentrano proprio nella
regione di Ammassalik”.
La conclusione dell’analisi di Marchiori è amara ma di forte attualità, almeno
per il suo tempo: la pubblicazione risale al 1978 e vengono richiamati i
risultati di incontri e convegni tenuti pochi anni prima, come il Terzo Simposio
di Medicina Circumpolare del 1974 a Yellowknife in Canada.
Quando la Groenlandia entra nella storia contemporanea, decreta la lenta ed
inesorabile assimilazione della cultura Dorset e Thule a quella europea e
danese. L’introduzione della armi da fuoco ha inciso non solo sulle tecniche di
caccia ma anche sull’incremento demografico (per il basso tasso di mortalità
maschile); l’avvento dei motori ha sostituito slitte e kayak ed i pescherecci
seguono ormai i grandi banchi di merluzzo più che le tradizionali battute ai
mammiferi marini; il tentativo di installare attività produttive estranee alla
cultura Inuit (agricoltura e allevamento di renne e pecore) è risultato
fallimentare per le avverse condizioni climatiche ma anche per la difficoltà di
imporre un’occupazione stabile non più regolata dalle stagioni. Nelle estrazioni
minerarie che presero piede nel territorio artico, ricco di uranio, nikel, rame,
zinco, piombo, oltre che di petrolio, capitava spesso di dover sospendere le
attività estrattive perché gli operai Inuit avevano avvistato branchi di beluga
ed erano partiti per la caccia!
Inoltre, le inevitabili trasformazioni culturali hanno inciso non solo sulla
salute ma anche sulle abitudini sociali: si sono registrati aumenti preoccupanti
di carie dentarie, colesterolo, ipertensione, arteriosclerosi e miopia,
quest’ultima salita addirittura del 65% tra i bambini Inuit che avevano
frequentato i collegi danesi, e non per l’aumento della scolarità quanto
piuttosto per il cambiamento di abitudini alimentari, oltre che di esposizione
al sole.
Considerazioni analoghe, ed anche più dure, vengono fatte a proposito dei tratti
distintivi della società Inuit: sono cambiati in pochi decenni il senso di
ospitalità, il principio dell’adozione dei minori, il rispetto dell’anzianità, i
valori della sessualità e della spiritualità, persino la moda e l’abbigliamento.
Marchiori registra negli anni Settanta una costante ed inarrestabile
decomposizione del tessuto sociale ed individuale ed una preoccupante deriva dei
singoli e del gruppo, con l’aumento dell’aggressività, dei suicidi e degli
omicidi, della prostituzione e dell’alcoolismo, del tabagismo e del gioco
d’azzardo. Tutti fattori che con l'ingresso nel Ventunesimo secolo sono
peggiorati ulteriormente.
Ma chiude la sua lunga ed approfondita analisi con un soffio di speranza: la
capacità di autodeterminazione che gli Inuit groenlandesi possono ancora
valorizzare può traghettarli nel nuovo millennio senza altri strappi culturali,
grazie
anche
alla lungimirante politica sociale danese e alla tollerante
evangelizzazione luterana che, pur con macroscopici errori, hanno permesso alla
madre-patria di tutelare la ex-colonia dei “Danesi del Nord” dall’assalto
devastante della civiltà contemporanea. L’autore non poteva prevedere che il
processo così innescato avrebbe determinato una forte spinta autonomista,
sfociata nel referendum del 1982 per l’uscita dalla Comunità Europea (in cui la
Danimarca
era entrata
nel 1973 sebbene il 70% dei groenlandesi avesse voltato no) ed in quello
del 2008 per l'autodeterminazione della Groenlandia dalla Danimarca, passato con
il 75% di voti favorevoli. E’ una lunga strada irta di difficoltà, quella della
completa autonomia groenlandese, ma di fronte ad un cambiamento epocale che sta
coinvolgendo un intero popolo, possono giocare un ruolo positivo, suggeriva
Marchiori ancora nel 1978, il bilinguismo ed il biculturalismo, lo sviluppo
economico dell’artico ed il rapporto con l’ambiente non più concepito come
appropriazione (capitalista ed imperialista) ma come rispetto ed alleanza.
Purché si passi da una acculturazione “subita” ad una acculturazione
“intraprendente”, si elabori una “accettazione dinamica del processo di
cambiamento” e si consideri come “nessuna persona è disposta a prendere parte ad
uno sviluppo con il quale non può o non vuole identificarsi perché ispirato a
valori diversi dai suoi”.
Dopo oltre trent’anni, questi suoi scritti sono ancora molto attuali.
Mario Marchiori è nato a Genova nel 1928. Oltre ad essere stato il
direttore del Museo Polare Etnografico “Silvio Zavatti” di Fermo è stato un
illustre studioso di popoli artici e per anni ha collaborato con il Centre d’Etudes
Arctiques di Parigi, collegato al Centre Nationale de la Recherche Scientifique.
La sua bibliografia riassunta sulla quarta di copertina si ferma al 1977, anno
di pubblicazione dei suoi ultimi articoli sulle riviste scientifiche
specializzate, ma la prefazione di Jean
Malourie al testo pubblicato nel 1978 tradisce un profondo legame con gli
studiosi francesi: “Mario Marchiori è, senza alcun dubbio, con
Silvio Zavatti, direttore
dell’Istituto Geografico Polare [poi divenuto Museo Polare Etnografico “Silvio
Zavatti”, n.d.r.], uno degli esponenti di una nuova generazione di italiani
dallo spirito aperto ed acuto, che sono interessati ai problemi di sociologia e
di economia politica dell’Artico. Il suo libro è il primo importante studio
scritto da un italiano che compare sui problemi contemporanei groenlandesi”.
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